La carenza di camici bianchi allarma il nostro Bel Paese tanto da accogliere sanitari provenienti da altre nazioni come l’Argentina. Dopo un periodo di formazione scenderanno in campo alleviando, solo in parte, il disagio dei reparti. La soluzione del ministro Bernini non risolve il problema.
Roma – Non è la prima volta che il problema affiora ma fino adesso era stato eluso. Ecco, dunque, che riemerge la possibilità di eliminare il numero chiuso a Medicina e superarlo senza prevedere troppi sbarramenti alle soglie d’ingresso in facoltà. La dichiarazione è del ministro dell’Università Anna Maria Bernini. La responsabile del dicastero ha collegato la questione del numero chiuso alla mancanza strutturale di personale medico in Italia:
“È vero che c’è una carenza di medici – ha detto Bernini – e allo stesso tempo che le università devono essere messe nelle condizioni di formare gli studenti in modo da mantenere la grande qualità della nostra formazione”. Però, secondo la ministra, il primo passo verso la soluzione sarebbe aprire la facoltà di Medicina nelle università, invece di limitare il numero di studenti che possono accedervi. Tra le tante voci critiche sulla proposta c’è il sindacato Anaao Assomed:
“A questo punto non abbiamo più dubbi di essere di fronte a un vero e proprio disegno per destrutturare questa professione nel futuro – ha dichiarato il segretario nazionale Pierino Di Silverio – Per formare un medico occorrono 11 anni. Aprire oggi il numero programmato a Medicina vuol dire sfornare disoccupati di lusso tra 11 anni, quando l’esigenza di medici non sarà così pressante come oggi, visti i dati sui pensionamenti. La pletora verso cui ci avviamo però contribuirà sicuramente alla cessione di un mercato al ribasso”.
Il presidente di Anaao Assomed aveva detto, l’ultima volta che il dibattito si era presentato, che i problemi da risolvere sono altri, e cioè quelli degli stipendi bassi, della scarsa valorizzazione professionale e della ridotta conciliazione vita/lavoro. Per questo oggi Di Silverio ha ribadito:
“Ci opponiamo fermamente a tale scelta scellerata, appellandoci alla sensibilità del ministro della Salute e chiedendo incontro urgente al ministro Bernini per rappresentare le ragioni della categoria”. La rotta sembra, comunque, già tracciata, tanto che a partire da settembre ci saranno fino a 4mila posti in più per il corso di laurea in Medicina e Chirurgia. In tal modo, da qui a sette anni, ci saranno 30mila posti in più. L’obiettivo è quello superare il numero chiuso in maniera sostenibile. Però, a quanto pare, una delle critiche spesso rivolte all’idea di aumentare il numero di posti è che le università, semplicemente, non sono equipaggiate per formare il numero di studenti che inizierebbero Medicina.
Non ci sarebbero dunque gli spazi, gli insegnanti, né addirittura la possibilità di gestire laboratori e tirocini. L’impegno di Bernini si scontra con parecchie incrostazioni e baronie. Il vero problema è quello di garantire agli universitari la possibilità di essere formati correttamente e la prospettiva, soprattutto, di lavorare dopo il percorso di laurea. Però, ancora, non è dato sapere come si vorrebbe andare incontro alle esigenze degli atenei. L’idea, in ogni caso, parte da una serie di valutazioni, la prima è che, come popolazione, invecchiamo molto bene.
In sostanza, esiste una terza età, ma anche una quarta, ha dichiarato la ministra. “Quindi ne deriva – secondo Bernini – che si ha bisogno di medicina di prossimità, di medicina territoriale, di assistenza domiciliare, in pratica necessitano medici che siano in grado di rispondere a queste esigenze”. Le scelte dei neo-medici possono però influenzare, a discapito di altre, alcune specializzazioni. Eccolo il problema da risolvere. Infatti, già ad inizio anno si era parlato di superare il numero chiuso e di aumentare il numero di posti disponibili. Anche allora, però, qualcuno aveva fatto notare che un problema più impellente è quello della carenza di borse di specializzazione e Bernini aveva risposto che non è una questione di posti, ma di attrattività, perché alcune specializzazioni finiscono per essere “inflazionate” mentre altre, come la medicina d’urgenza, rischiano di “non avere personale”.