Dopo il greenwashing, nel settore fashion dilaga il “greenhushing”: non si millanta più la sostenibilità, ma si preferisce il silenzio. Una strategia (non) comunicativa che solleva dubbi e perplessità.
Avevamo “fatto il callo”, come si dice quando si sopporta qualcosa non proprio piacevole ed adesso si verifica l’opposto. Nel primo caso ci si riferisce al “greenwashing”, una strategia di marketing e comunicazione delle aziende per presentare i propri prodotti o servizi ecologici e sostenibili. In sostanza, è un’esagerazione o un’ingannevole comunicazione sui benefici ambientali. Quindi una vera e propria “presa in giro”.
Ora assistiamo al fenomeno contrario, il “greenhushing”, ovvero la mancata comunicazione, intenzionale, sulla sostenibilità ambientale, nonostante l’adozione di misure in merito. Della serie “fatti e non parole”, ma trattandosi di aziende e non di confraternite, qualche sospetto è lecito nutrirlo. Ormai la sostenibilità ambientale è diventata un mantra da utilizzare per tutte le stagioni.

Anche le aziende di moda si sono dovute adattare al nuovo corso, soprattutto, perché i consumatori più giovani si sono mostrati molto sensibili al tema. Ma in pratica è successo che molte di esse sono state accusate di enfatizzare le loro intenzioni, ingannando i clienti. Ora, poiché il marketing ne sa una più del diavolo, è stata escogitata l’idea di coprire con una coltre di silenzio il fenomeno, che è palese nel settore della moda e del lusso. I motivi alla base della scelta sono vari e tanti. Uno potrebbe essere: meglio il silenzio che essere accusati di “greenwashing”.
Questa mancata comunicazione è un modo per sfuggire al giudizio del pubblico, in quanto molte imprese sono consapevoli che gli obiettivi sulla sostenibilità aziendale sono in là da essere raggiunti. In questo ambito la dedizione deve essere continua perché il percorso è irto di ostacoli, limiti, alti e bassi. Tuttavia secondo il “deus ex machina” dell’economia di mercato, ossia il marketing, essere giunti a metà del percorso è una sorta di smacco umiliante, difficile da digerire. Per questi motivi molti marchi comunicano quanto meno è possibile, anche per sottrarre alle altre imprese del settore una tecnica che possa risultare efficace ed essere imitata.

Ma non è solo questo aspetto che è decisivo nella nuova strategia. Infatti, secondo un’indagine condotta dalla Linköping University, una delle maggiori istituzioni accademiche svedesi, e dalla Kedge Business School di Bordeaux, Francia, un’Università privata internazionale, nelle aziende del lusso si è consolidata l’idea dell’inutilità del valore della sostenibilità, in quanto il gioco non vale la candela non producendo valore aggiunto e può dare delle sfumature negative. Il settore della moda e del lusso sono particolarmente propensi a comportarsi quasi come delle “organizzazioni semi-segrete”, tutte le strutture di processo e di prodotto devono restare precluse alla conoscenza esterna. Bah, misteri dell’economia e del mercato!
Concettualmente, il “greenhushing” è una mancanza di chiarezza, come mettere la polvere sotto il tappeto. E, infatti, gli ambientalisti in generale hanno evidenziato il suo aspetto dannoso. Non si sa se sia un fenomeno a lungo termine o passeggero, che dura lo spazio di un mattino. E’ importante che i consumatori diventino sempre più consapevoli e coscienti dei prodotti e servizi che acquistano. Ma si tratta di una questione di lana caprina, ovvero inutile, superflua. I grandi marchi della moda hanno sempre fatto il bello e cattivo tempo, determinando inquinamento ambientale e sfruttamento della manodopera esterna. All’improvviso non possono cambiare la loro natura!