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Smart working e privacy: tra diritti, controlli e fiducia ancora da costruire

Il lavoro da remoto è ormai una realtà consolidata, ma resta aperta la questione dei controlli sui lavoratori. E la privacy? Serve equilibrio tra efficienza e tutela dei diritti.

Il lavoro da remoto o smart working è una particolare modalità di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato introdotta al fine di incrementare la competitività e di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e lavoro. Ebbe il suo sviluppo decisivo, che accelerò un processo già in fieri, durante la pandemia col lockdown, quando fummo costretti a restare rintanati in casa per evitare il perfido virus. Da allora è passata tanta acqua sotto i ponti e il lavoro a distanza è diventato consuetudine.

In questo nuovo contesto ci si chiede quali possono essere i controlli sul lavoratore. In primis, pur lavorando da remoto, il lavoratore ha gli stessi diritti e doveri di uno in presenza. Il controllo sui lavoratori, anche a distanza, è regolamentato dallo Statuto dei Lavoratori, che vieta l’uso di strumenti tecnologici con scopi di controllo a distanza. Questi possono essere adottati per esigenze organizzative, produttive e per la sicurezza del lavoro senza ledere, comunque, i diritti fondamentali del lavoratore.

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Il lavoratore deve essere preventivamente informato su cosa verrà monitorato durante lo smart working, con quali strumenti e per quale scopo.

L’equilibrio tra gli interessi del lavoratore e quelli dei datori di lavoro è sostenuto anche dalla normativa europea del 2016. Per l’installazione di strumenti tecnologici c’è bisogno di un accordo tra l’azienda e le rappresentanze sindacali, in mancanza delle quali va chiesta un’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro. Se non vengono soddisfatte queste condizioni, i controlli sono illegittimi e le informazioni ricavate dagli stessi nulle.

Il lavoratore, secondo la legge, deve essere informato di un eventuale controllo, sulle sue modalità e sull’oggetto. Il datore di lavoro deve esplicitare cosa sarà controllato e raccolto e come. In caso di inadempimento delle norme, il datore di lavoro rischia sanzioni amministrative, civili e penali. Inoltre, nel caso di trattamento illecito dei dati personali, il Garante per la protezione dei casi personali può imporre sanzioni di svariati milioni di euro o fino al 4% del fatturato annuo mondiale.

La violazione delle norme può anche portare a sanzioni fino al 4% del fatturato annuo globale, oltre che a responsabilità civili e penali.

Negli ultimi anni, il Garante ha emanato molte multe ad aziende che hanno effettuato controlli a distanza violando le norme vigenti. Ad esempio, nel 2022 un’azienda è stata multata di 40mila euro per aver utilizzato sistemi di geolocalizzazione sui veicoli aziendali senza aver fornito un’adeguata informativa ai lavoratori né aver stipulato l’accordo sindacale.  Sempre nello stesso anno, un’azienda, per aver installato software di monitoraggio delle attività digitali dei dipendenti, è stata multata con una sanzione pari a 60.000 euro. Ora è senz’altro giusto che siano rispettati i diritti delle parti in causa, lavoratori e datori di lavoro, per accertare il legale utilizzo di strumenti di controllo e i suoi scopi, e soprattutto che ci siano pene certe.

Tuttavia questo conflitto per l’uso irregolare della tecnologia, stride col normale andamento delle relazioni industriali e sindacali, che dovrebbe essere basato sulla fiducia reciproca. Ma questo, purtroppo, fa parte delle buone intenzioni, di cui è lastricata la strada per l’infermo, come, pare, dicesse il filosofo Karl Marx!

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