Diffamazione e giornalismo: un bavaglio alla libertà di stampa?

L’inasprimento del carcere per diffamazione limita la libertà di espressione. Con enormi rischi per l’indipendenza e la qualità dell’informazione.

Lo scorso aprile si avvertì chiaramente un “tintinnio di manette” trasformato in un suono sordido che si diffuse nel panorama editoriale e tra l’opinione pubblica. Cosa era successo di così clamoroso per paventare pericoli alla libertà d’informazione? In pratica venne inasprito il carcere ai giornalisti per il reato di diffamazione, col carcere fino a 3 anni e una multa di 120 mila euro per “condotte reiterate e coordinate” di diffusione di notizie false per mezzo della stampa.

Il legislatore ha previsto, bontà sua, la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da 3 mesi a 3 anni.  Il nobile intento del legislatore era di “tutelare l’opinione pubblica da notizie false”, perché la diffamazione a mezzo stampa mette in moto la cosiddetta “macchina del fango”. Questa locuzione, diffusasi nel linguaggio giornalistico e politico per la sua forza evocatrice, indica l’azione coordinata di un gruppo di pressione, attraverso i mass media, per delegittimare o ledere l’onore e la credibilità di un avversario, gruppo politico o lobby. Ossia ne infama e scredita l’immagine pubblica allo scopo di intimidirla, punirla o condizionarla, incidendo sul giudizio dell’opinione pubblica nei suoi riguardi.

La diffamazione a mezzo stampa assume aspetti pericolosi per la sua enorme capillarità.

Ma se le intenzioni possono essere valide, è noto che, come recita il Vangelo, di “buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno”. Ora il codice penale all’art. 595 definisce il reato di diffamazione come “disposizione per la tutela dell’onore e della reputazione delle persone”. Significa offendere l’altrui reputazione comunicando con più persone, senza la presenza dell’offeso. Inoltre, va considerato che ogni illecito penale, allo stesso tempo, è anche un illecito civile, e pertanto è fonte di obblighi risarcitori, spesso anche rilevanti. La diffamazione a mezzo stampa assume aspetti pericolosi per la sua enorme capillarità. Intorno a un tema così scottante si è sviluppato un… acceso dibattito. La Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) ha diramato una nota secondo cui gli emendamenti presentati sono in netto contrasto con le sentenze della Corte Costituzionale, considerando il provvedimento incivile. Inoltre, mostra il timore del governo verso la libertà di stampa.

In Italia la libertà di stampa non se la passa benissimo, con molti giornali-fotocopia.

La diffamazione è un’arma per neutralizzare molte inchieste giornalistiche, un ulteriore oltraggio all’art. 21 della Costituzione, che per chi se ne fosse dimenticato recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Malgrado le istituzioni europee e la Corte Europea per i diritti dell’uomo abbiano più volte invitato le autorità italiane a eliminare dal codice penale il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa, i nostri governanti sono sordi ad ogni richiamo e fanno orecchie da mercante. Non è che la destra, raggiunto il potere, si sta facendo prendere la mano, restando vittima di ataviche pulsioni autoritarie?

Sono segnali comunque pericolosi in una nazione come l’Italia in cui l’informazione non è che se la passi bene per la presenza di molti giornali fotocopia, frutto delle concentrazioni editoriali e con testate indipendenti che si contano sulle dita di una mano, con una tv nazionale lottizzata da quando è sorta. L’ultimo rapporto sullo stato dell’informazione a cura di Meta, un’agenzia di monitoraggio dei media, ha evidenziato “un aumento della pressione esercitata nel nostro Paese da soggetti pubblici sull’informazione”.  Un Paese, quindi, in libertà… vigilata!

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