A Conegliano il fascino eterno dell’Egitto: un viaggio tra mito e immortalità

Oltre 100 reperti illustrano il rapporto degli antichi egizi con la morte e l’Aldilà lungo una parabola di oltre 2000 anni.

Treviso – Una porta d’accesso a un mondo perduto, dove la vita e la morte non erano che tappe di un unico, infinito cammino verso l’eternità. A spiegarlo con dovizia di particolari è la mostra “Egitto. Viaggio verso l’immortalità”, che ha appena aperto i battenti a Palazzo Sarcinelli di Conegliano, splendida cittadina della Marca trevigiana (e dove resterà visibile fino al 6 aprile 2025). Curata dall’egittologa Maria Cristina Guidotti, offre una buona occasione per immergersi nel misterioso mondo dei faraoni, dei riti funerari e della loro complessa visione dell’Aldilà.

A parlare sono oltre 100 reperti, che illustrano la complessa e a tratti misteriosa realtà degli antichi egizi lungo una parabola di oltre 2000 anni, dal Medio Regno (fine III millennio a.C.) all’epoca romana (IV secolo d.C.). L’esposizione racconta il viaggio verso l’immortalità degli antichi egizi, esplorando le pratiche di imbalsamazione, i rituali funerari e i corredi che accompagnavano i defunti nel loro percorso verso i Campi di Iaru, l’equivalente egizio dei Campi Elisi, garantendo la continuità della vita nell’aldilà.

Cassa canopica, legno stuccato e dipinto, Nuovo Regno – Terzo Periodo Intermedio (1550 – 656 a.C.)_1

Gli oggetti provengono dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze, uno dei più importanti musei egizi d’Italia, e arrivano a Conegliano dopo una tappa internazionale in Danimarca. Una collezione, quella fiorentina, formatasi tra Settecento e Ottocento e che ebbe impulso dall’interesse del Granduca di Toscana Leopoldo II, il quale finanziò, insieme al re di Francia Carlo X, una cruciale spedizione scientifica franco-toscana nella terra dei Faraoni. A capo c’erano il francese Jean-François Champollion, lo studioso cui si deve la “decifrazione” della scrittura geroglifica, e il pisano Ippolito Rosellini, padre dell’egittologia italiana: i due furono immortalati da Giuseppe Angelelli in un dipinto, che li ritrae davanti alle rovine del tempio di Karnak a Tebe.

Gli esploratori partirono il 31 luglio 1828 e tornarono il 27 novembre 1829 recuperando un gran numero di oggetti, poi suddivisi al ritorno tra Parigi e Firenze. In Toscana le antichità furono esposte nel 1830 in una mostra allestita a Firenze in via Larga (oggi via Cavour), quindi fu deciso di convogliarle agli Uffizi. Nel 1832 venne acquistata la collezione egizia di Alessandro Ricci, che aveva raccolto le sue opere durante una precedente permanenza nella terra dei Faraoni. Seguì nel 1855 la nascita del Museo Egizio di Firenze in via Faenza, poi riordinato nel 1880 dal grande egittologo piemontese Ernesto Schiaparelli, futuro direttore del Museo Egizio di Torino. Le collezioni egizie, trasferite in piazza SS. Annunziata, furono inaugurate alla presenza del re Umberto I e della regina Margherita e andarono crescendo via via grazie a nuove acquisizioni e agli scavi che egli stesso condusse in due spedizioni in Egitto, prima del suo trasferimento a Torino nel 1894. Oggi i reperti egizi conservati a Firenze sono oltre 14.500 e offrono una panoramica completa delle usanze funerarie dell’antico Egitto e del concetto di immortalità dell’anima.

Mummia di bambino con sarcofago, legno, tessuto e materiale organico, Epoca Romana (I-II secolo d.C.)

Il percorso della mostra, che si articola in cinque sezioni, è studiato per accompagnare il visitatore alla scoperta delle credenze religiose che guidavano gli egizi nella loro ricerca dell’immortalità. Gli antichi egizi, infatti, credevano che la morte fosse solo un passaggio verso una nuova vita, e che l’anima del defunto dovesse reincarnarsi nel proprio corpo per continuare a esistere nell’aldilà. Questo ne rendeva indispensabile la conservazione attraverso complessi processi di imbalsamazione.

Tra i “pezzi” di spicco vi sono le statue raffiguranti il dio del regno dei morti Osiride e Iside con Horo (o Horus), il dio dalla testa di falco. In mostra c’è anche un Udjat, l’occhio di Horo, amuleto simbolo di integrità e salute che si trova solitamente all’interno dei bendaggi che avvolgevano il corpo del defunto, ma anche su rilievi, incisioni e papiri, in quanto simbolo di rigenerazione. Graficamente è costituito da un occhio sovrastato dal sopracciglio e, sotto, dal piumaggio del falco, animale del quale Horus prendeva le sembianze. Secondo la mitologia egizia, Horus volle vendicare l’uccisione del padre Osiride, perpetrata dal fratello di quest’ultimo, Seth. Nei testi mitologici è narrato il combattimento cosmico tra le due divinità, nel corso del quale Seth riuscì a strappare un occhio all’avversario. Ma Horus, con l’aiuto del dio Thoth, fu in grado di ritrovarlo e, dopo averlo purificato, lo rimise al suo posto dandogli il nome di udjat = “colui che è in buona salute”.

E poi c’è Anubi: il dio dalla forma di canide comunemente identificato con uno sciacallo, protettore delle necropoli. In mostra ci sono poi alcune stele funerarie a falsa porta che avevano la funzione di permettere al ba, l’anima del defunto, di uscire dalla tomba. E ancora, amuleti a forma di “wdjat” (l’occhio del dio falco Horo), scarabei alati, vasi canopi, casse canopiche riccamente dipinte, sarcofagi, maschere funerarie, busti di faraoni e monili in oro.

Sarcofago di Padimut, legno stuccato e dipinto, Terzo Periodo Intermedio (1070 – 656 a.C.)_1

Interessante è, in particolare, il sarcofago del sacerdote Padimut (Terzo Periodo Intermedio, 1070 a.C. al 656 a.C.), conservato a Birmingham, nel Regno Unito. Il defunto è rappresentato di fronte alla propria mummia con in mano un geroglifico con una dedica a sé stesso. Sui fianchi della cassa vi sono scene di offerta a svariate divinità. La maschera del coperchio ha la barba rituale, l’ampio collare (wsekh) e il corpo decorato a fasce. Nelle mani chiuse a pugno vi sono due contenitori cilindrici portadocumenti. Sul petto si incrocia una banda rossa, caratteristica dei sarcofagi tra la fine della XXI e la fine della XXII dinastia, dal significato protettivo. Padimut era il sacerdote della dea Mut e il suo nome significa “colui che Mut ha dato”. Era anche un incisore di metalli e prestò servizio presso il Tempio di Amon-Re a Tebe.

Occhi per maschera funeraria, bronzo e pietra nera, Epoca Tarda (656 – 332 a.C.)

La sepoltura di Padimut è significativa perché ci racconta molto anche sul processo di mummificazione. Il cervello della mummia venne rimosso dagli imbalsamatori, impiegando un gancio posizionato sul naso per l’estrazione. Sopra ai veri bulbi oculari dell’uomo venne posizionata una coppia di occhi finti, che avevano la funzione di garantire la vista anche nell’aldilà. In questo caso anziché essere estratti e collocati nei consueti vasi canopi, gli organi di Padimut furono mummificati e rimessi nel corpo. Il collo della mummia si presentava inoltre imbottito di materiale da imballaggio, secondo l’antica credenza che fosse una delle parti più vulnerabili del corpo (e per questo di solito era anche protetta da amuleti). Il sarcofago raffigura Padimut adagiato su una bara in un santuario mentre il dio della mummificazione, Anubi, si prende cura di lui.

Sarcofago con pseudomummia, legno stuccato, materiale organico, tela e gesso dipinto, Epoca Greco-Romana (332 a.C.-313 d.C.)

In mostra non possono, ovviamente, mancare le mummie, tra le quali quella – particolarmente curiosa – portata a Firenze nel 1765 da Giovanni Francesco Agostini. All’apparenza sembrava quella di un neonato, invece la radiografia ha svelato che apparteneva a un falco.

Immagine in apertura: Maschera di mummia, cartonnage, Epoca Tolemaica (305 – 30 a.C.)


“EGITTO. Viaggio verso l’immortalità” 
Palazzo Sarcinelli, Via XX Settembre 132, Conegliano (TV)
dal 23 ottobre 2024 al 06 aprile 2025
Info: www.artika.it

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