Laddove hanno ucciso il nostro giovane diplomatico, il carabiniere di scorta e l’autista insistono interessi economici altissimi. La corruzione vola ai massimi livelli e anche il Bel Paese non è secondo a nessuno per schifezze e affari sporchi.
Goma, capoluogo di provincia del Kivu Nord, nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), è stato teatro di una tragedia i cui risvolti non sono ancora del tutto chiari. Nel conflitto a fuoco hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.
In quest’area dell’est del Paese ormai tristemente nota da decenni per le guerre, i conflitti etnici e le invasioni territoriali da parte degli Stati confinanti accade di tutto. L’instabilità, lo scarso controllo e l’intervento da parte dello Stato e la frammentazione della regione sono legate imprescindibilmente alle sue ricchezze minerarie: rame, cobalto, coltan, zinco, alluminio, cadmio, petrolio, legno, diamanti e oro.
Insomma materie prime che fanno gola a mezzo mondo. Nella RDM, che una volta si chiamava Zaire, può accadere di scavare una latrina nel cortile di casa e trovare ”un tesoro”. Un territorio, popolato da 84 milioni di persone che vivono per oltre il 50% in assoluta povertà, talmente ricco da poter sfamare non solo l’Europa intera ma almeno un’altra decina di nazioni.
Bambini che lavorano in condizioni estreme e precarie, scavando a mani nude la terra per portare alla luce minerali che si trovano in aree con buche profonde fino a 25 metri in cui rischiano cadute mortali.
Minerali che acquistano valore non appena giungono in porti internazionali dove si innescano interessi economici ben precisi, con tanto di gruppi “mafiosi” militarizzati che sfruttano le popolazioni locali spesso usando violenza e sopraffazione.
Il commercio dell’oro costituisce una delle maggiori entrate illegali, pari a centinaia di milioni di dollari l’anno, tanto che i ricercatori dell’agenzia specializzata dell’Onu ritengono siano utilizzati per finanziare le fazioni armate congolesi e straniere mentre le reti criminali transnazionali operano soprattutto nei Paesi limitrofi come Uganda, Ruanda, Burundi e Tanzania.
A tal proposito il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 29 novembre 2010, aveva adottato la risoluzione 1952, che richiama gli Stati membri a mettere in atto misure per conoscere l’origine dei minerali e assicurarsi che il ricavato di quelli importati non vada a beneficio di uomini armati, compresi i militari dell’esercito congolese.
Il cobalto, ad esempio, elemento essenziale delle batterie ricaricabili delle automobili e dei telefoni cellulari, finisce nelle mani di Pechino, le cui aziende si accaparrano i diritti di estrazione senza assicurare un salario giusto ai minatori, privandoli di ogni diritto.
Oltre alla Cina a trarne vantaggi sono i governatori del Congo che, come avvoltoi, se ne spartiscono i profitti. Il Congo è il luogo delle guerre fratricide vendute come tribali ma combattute proprio per le risorse minerarie, come la prima Guerra Mondiale d’Africa, nella quale sette Paesi africani si sono contesi pezzi di territorio, provocando cinque milioni di morti, molti dei quali per mancanza di cibo e non per armi da fuoco.
Finito il conflitto molte organizzazioni hanno iniziato a ripristinare i servizi essenziali e le strade nella più totale indifferenza delle aziende minerarie che si sono sempre servite di ”mezzi di lusso” come aerei ed elicotteri, infischiandosene di quelle terre martoriate dalle guerre e dalla fame.
Eppure tra gli scrocconi delle risorse congolesi spicca anche l’Italia e a darne testimonianza è il rapporto di Re:Common del novembre 2020 che ricostruisce gli aspetti controversi riguardanti due licenze ottenute dalla multinazionale italiana Eni nel Paese africano – presente fin dal 1968 – e che sono finite sotto la lente della magistratura.
Sono stati passati al setaccio i diversi protagonisti della vicenda, dall’amministratore delegato dell’Eni Claudio De Scalzi e relativa consorte, passando per il manager Roberto Casula, fino ad arrivare all’uomo d’affari inglese Alexander Haly. Oggetto d’interesse sono alcune licenze ottenute nel 2013 e nel 2015 per produrre petrolio nei pozzi di Marine VI e VII nella RDC.
Eni avrebbe ceduto quote di giacimenti petroliferi al fine di ottenere il rinnovo delle licenze per produrre petrolio ad una società privata, la congolese Aogc (Africa Oil and Gas Corporation), riconducibile al presidente Denis Sassou Nguesso e fondata da Denis Gokana, consigliere speciale di Nguesso.
Tangenti non sotto forma di contanti ma di pezzi di giacimenti petroliferi. Eni è ora indagata per corruzione internazionale ai sensi della legge 231 del 2001, così come per lo stesso reato sono accusati Casula, Maria Paduano, Andrea Pulcini, Haly ed Ernest Akinmade.
De Scalzi e la moglie, Marie Magdalena Ingoba, sono sotto inchiesta per “omessa comunicazione di conflitto d’interessi”. Secondo la Procura, società collegate alla moglie di De Scalzi avrebbero beneficiato di contratti firmati con Eni per servizi forniti in Congo.
Il rapporto è stato pubblicato dopo che, il 10 settembre scorso, la Procura di Milano aveva chiesto al gip Sofia Fioretta che Eni fosse interdetta per due anni dal produrre petrolio nei pozzi congolesi. Fonti bene informate parlano di un eventuale accordo fra le parti ma lo sapremo solo nell’udienza fissata per il prossimo 25 marzo.
Risorse che suonano quasi come una maledizione per un Paese dove è conveniente mantenere guerre permanenti e a basso impatto mediatico per farci continuare a credere, per chi ci casca, che i nostri cellulari hanno un prezzo basso per la concorrenza tra i gestori.
E non per quei poveri schiavi che si consumano le mani a furia di scavare la terra per estrarre un bene che li renderà sempre più disgraziati.
AGGIORNAMENTO
Precisiamo che il Gip presso il Tribunale di Milano ha disposto l’archiviazione del procedimento nei confronti della signora Marie Magdalena Ingoba e di tutti gli altri indagati.
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