La tragedia emiliana fotografa lo stato delle 4mila sedi sparse in Italia, molto datate: per ammodernarle servono 560 milioni di euro.
Roma – Suviana, è stato solo un incidente? Il 9 aprile scorso una spaventosa esplosione ha distrutto la centrale idroelettrica Enel Green Power di Suviana, nell’appennino bolognese. Sette persone sono morte nell’incidente, tra tecnici e operai. La Procura di Bologna ha aperto un’inchiesta per disastro e omicidio colposo plurimo. Il tragico evento, oltre a scuotere le coscienze dei cittadini, ha fatto scoprire alla stragrande maggioranza l’esistenza delle centrali idroelettriche, questi colossi di cemento armato che si estendono tra le montagne italiane. Se ne contano più di 4mila, in grado di produrre tra il 16 e il 18% dell’energia elettrica nazionale e ben il 40% della produzione totale da fonti rinnovabili. Gli impianti, però, sono vecchi come il cucco. Secondo alcune stime il 70% degli impianti ha un’età media di 85 anni.
Per continuare a produrre energia hanno bisogno di manutenzione continua, ristrutturazione, adeguamento alle norme di sicurezza, funzionamento di turbine e alternatori. Lo scoppio di una turbina pare essere stata la causa del tragico incidente di Suviana. Ora, tutto questo ha costi onerosi che i concessionari fanno fatica a recepire e sostenere. Secondo uno studio a cura di “The European House Ambrosetti”, una società di consulenza strategica e di mercato, solo per sostituire gli impianti, sono necessari più di 560 milioni di euro.
Questi interventi diventano urgenti, tenuto conto della crisi climatica e della siccità. Stiamo parlando di cifre per cui nessuno, pubblico o privato, vuole mettere mano al portafoglio. Anche perché tra legislazione europea e nazionale, gli impicci sono notevoli. La direttiva Bolkestein prevede che qualsiasi azienda europea può proporsi per prestare dei servizi, che, quindi, vanno messi a gara, nel nostro caso dalle Regioni. Di fatto sta succedendo che tra leggi regionali impugnate e le proteste dei concessionari in essere, vige una certa confusione. Quest’ultimi invocano il “Golden Power”, uno strumento normativo, che permette al Governo di un Paese sovrano di bloccare o apporre particolari condizioni a specifiche operazioni finanziarie, che ricadano nell’interesse nazionale (settori strategici), come le centrali idroelettriche.
In questo modo verrebbero salvaguardati gli attuali assetti proprietari delle società di gestione. La matassa sembra ingarbugliata, anche perché con le concessioni in scadenza nel 2029, l’attuale proprietà non avrebbe alcun interesse a investire sugli impianti, rischiando di lasciare i benefici alla società subentrante. Secondo i fautori del “Golden Power”, una società straniera vincitrice del bando avrebbe tutto l’interesse a far aumentare il costo dell’energia bloccando a loro vantaggio gli impianti. La situazione è particolarmente intricante anche perché col cosiddetto federalismo energetico il potere si è diviso tra Stato (tutela dell’ambiente e concorrenza) e Regioni (produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica).
Si è creato così un ingorgo alla Corte Costituzionale, sovente sollecitata per rispondere a conflitti di competenza. Il problema, gira e rigira, sono sempre i soldi. Ci sono in ballo 9 miliardi di investimenti che i concessionari si sono impegnati ad attuare nel breve-medio periodo solo con una proroga delle concessioni e senza partecipare a gare. Una sorta di “do ut des”, se non un vero e proprio ricatto. La storia recente e non ci ha, finora, insegnato che quando grandi gruppi industriali e finanziari chiedono interventi legislativi è solo per avere finanziamenti o per salvaguardare il proprio mercato. Perché più che imprenditori, sono solo… prenditori. Tanto paga Pantalone!