Due omicidi dalla matrice diversa eppure simili quando è la violenza che sopprime uomini e diritti. A distanza di anni i nomi di Impastato e Moro non debbono diventare soggetti di ricorrenze, piuttosto esempi per uno Stato diverso.
“…Sei andato a scuola, sai contare? Sai camminare? E contare e camminare insieme lo sai fare? E allora forza conta e cammina: 1, 2, 3, 4, 5, ….90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99 e 100. Lo sai chi ci abita qua? ‘U zu’ Tanu ci abita! Cento passi ci sono da casa nostra… Mio padre, la mia famiglia, il mio paese! Io voglio fottermene! Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Io voglio urlare che mio padre è un leccaculo! Noi ci dobbiamo ribellare… Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente…”. Questo rimane uno dei passaggi epici del film “I cento passi”, come epico è il personaggio a cui il lavoro del regista Marco Tullio Giordana è ispirato: Giuseppe Impastato.
Era il 9 maggio del 1978 quando Peppino Impastato veniva ucciso dalla mafia, da quegli stessi uomini che cercava di lottare ogni giorno a viso aperto. Giornalista, attivista, fondatore di “Radio Aut” che utilizzava per sbeffeggiare i cosiddetti uomini d’onore. Peppino Impastato era una “mosca bianca” in una Cinisi assoggettata al potere mafioso. La famiglia Impastato era mafiosa e mafioso lo era anche il padre di Peppino, Luigi, chiamato più volte da “Tano Seduto”, ovvero Gaetano Badalamenti, a frenare quel figlio troppo audace. Il padre cacciava Peppino via di casa ma non riuscirà a tappargli la bocca. Nel settembre del 1977 Luigi muore in seguito ad un incidente stradale, qualche anno dopo la moglie, Felicia Bartolotta racconterà che in occasione di un viaggio negli Stati Uniti suggerito da Badalamenti, il marito, parlando con un parente, confessava: “..Prima di uccidere Peppino devono uccidere me…”. Peppino Impastato verrà ucciso un anno dopo, poco prima delle elezioni che vedevano il giovane giornalista candidato nella lista “Democrazia Proletaria”. Gli esecutori dell’omicidio proveranno a simulare il suicidio, ma a Cinisi, anche se nessuno parla, tutti sanno chi è stato ad ucciderlo. Nel 1983, con una sentenza firmata dal Consigliere del Pool Antimafia Antonino Caponnetto, viene riconosciuta la matrice mafiosa dell’omicidio, ma non vengono individuati i colpevoli. Dopo decenni di battaglie, portate avanti dalla famiglia, dal Centro Impastato, Rifondazione Comunista ed altre organizzazioni, tra archiviazioni e mezze verità, per quell’omicidio vengono arrestati i mafiosi Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo.
Peppino Impastato ha lasciato una grande eredità, soprattutto ai giovani, pagando con la propria vita la voglia di resistere ad un sistema marcio composto da mafiosi e paesani pronti sempre a riverire il boss di Cinisi; molte di queste persone permetteranno la simbolica elezione di Peppino Impastato dopo la sua morte.
Oggi ancora tanti mafiosi vivono a cento passi dalle nostre abitazioni, non hanno più la “coppola” e l’anello del potere al dito, in molti casi indossano giacca e cravatta e portano una 24 ore, ma ci sono. Bisogna allora continuare nel solco di Peppino Impastato, ribellarsi e gridare a tutti che “la mafia è una montagna di merda”. Da Cinisi a Roma. Un altro delitto eccellente, diverso, altri motivi ma un unico denominatore: la violenza contro la libertà. In entrambi gli omicidi lo Stato ne usciva perdente.
Quello del 9 maggio del 1978 è stato un giorno terribile per l’intero Paese: nemmeno il tempo di apprendere la notizia che un ragazzo era stato brutalmente ucciso a Cinisi che l’attenzione mediatica si spostava a Roma. In via Caetani, nei pressi di Botteghe Oscure, all’interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa, veniva ritrovato il cadavere di Aldo Moro. Lo statista della Democrazia Cristiana, era stato sequestrato il 16 marzo dalle brigate rosse. Nell’agguato, militarmente congegnato, furono uccisi 2 carabinieri e 3 poliziotti. Ancora oggi il “caso Moro” fa notizia. Un caso freddo nel quale non si è mai accertata la responsabilità di una certa politica, e di alcuni uomini delle istituzioni, che non hanno ceduto alle richieste pressanti delle BR per fare salva la vita del giurista delle “convergenze parallele”. Nel corso dei suoi 55 giorni di prigionia, Aldo Moro scrisse 86 lettere indirizzate, in gran parte, ai vertici della DC. Alcune non furono mai recapitate ai destinatari. Oggi la figura dello statista democristiano è stata ricordata anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “…Lo straziante supplizio a cui Moro venne sottoposto – ha affermato il capo dello Stato – resterà una ferita insanabile nella nostra storia democratica. Respinta la minaccia terroristica, oggi ancor più sentiamo il dovere di liberare Moro e ogni altra vittima da un ricordo esclusivamente legato alle azioni criminali dei loro assassini…”.