E-COMMERCE: TASSE BASSE E ALTI PROFITTI. IL DETTAGLIO CHIUDE.

La battaglia commerciale si combatte in rete ma le armi sono impari. A cadere saranno dettaglianti e piccoli imprenditori a vantaggio delle multinazionali che non hanno saputo proteggere dal virus le maestranze. Impegnate com’erano e sono a macinare milioni di euro a basso costo fiscale.

La crisi non è uguale per tutti. Almeno questo è quanto emerge dai primi bilanci economici a due mesi e più dalla pandemia. Le prossime settimane saranno cruciali non solo per comprendere le sorti della finanza mondiale ma anche per osservare i cambiamenti del mercato nazionale e internazionale. Secondo gli esperti dell’Istat il commercio al dettaglio ha subito una forte contrattura che potrebbe prolungarsi per tutto l’anno. Nel solo mese di marzo si è registrata una diminuzione pari al 20,5% rispetto a febbraio, per un volume totale di 21,3%. A esser più colpiti sono i comparti non alimentari, con una riduzione cumulata dell’11,6%.

Su scala tendenziale il ribasso di vendita ha interessato principalmente i settori d’abbigliamento (-57%,1), di sport e campeggio (-52,2) e in generale degli articoli da viaggio (-54,1%).  Rispetto a marzo 2019, il valore delle vendite al dettaglio diminuisce del 9,3% per la grande distribuzione e del 28,2% per le imprese operanti su piccole superfici. Le vendite al di fuori dei negozi calano del 37,9% mentre è in crescita sostenuta il commercio elettronico (+20,7%).

Per il commercio al dettaglio non saranno tempi felici

Questi dati testimoniano una progressiva mutazione nella forbice d’acquisto da parte dei consumatori. Infatti la crisi ha colpito non tanto il mercato dei beni, quanto la stessa metodologia d’acquisto. Durante il periodo maggiormente colpito dal virus molti italiani hanno utilizzato la tecnologia per effettuare acquisti. Dai libri agli indumenti, dalle attrezzature sportive fino ai giocattoli, le grandi multinazionali che operano nel settore della vendita online hanno visto aumentare i propri profitti in maniera vertiginosa. Questa tendenza ha esacerbato il malumore di molti piccoli negozianti che, tra spese d’affitto e tassazioni di ogni genere, sono costretti a proporre le proprie merci sul mercato al dettaglio a prezzi maggiori rispetto ai leader dell’e-commerce. Per la principale piattaforma d’acquisto online, Amazon, il periodo della contenzione forzata è stata una delle fasi commerciali più proficue dalla propria fondazione. L’Institute for Policy Studies ha rilevato che nel periodo di pandemia i super-ricchi americani hanno guadagnato 282 miliardi in tre settimane. Jeff Bezos, fondatore e amministratore delegato di Amazon, a partire dall’inizio della malattia virale ha registrato un profitto di circa 10 miliardi di dollari.

“…La chiusura delle migliaia di piccole imprese – dichiara il rapporto dell’Institute for Policy Studies – hanno offerto ad Amazon l’opportunità di aumentare la propria quota di mercato, rafforzando il suo posto nella catena di approvvigionamento per poi ottenere un maggiore potere di determinazione dei prezzi sui consumatori. Nonostante il dominio e-commerce di Amazon, Bezos non è stato in grado di proteggere la sua forza lavoro dal Covid-19: i lavoratori di 10 diversi magazzini Amazon sono risultati positivi al virus…”.

Si tratta, però, di una partita altamente sleale. Le grandi realtà dell’e-commerce pagano imposte nettamente inferiori rispetto a quelle dei piccoli negozianti, alcune che non superano il 3%. Basti pensare che secondo un rapporto presentato da Mediobanca in merito a tale imparità, risulta che nel 2018 i primi quindici giganti del web operanti in Italia, hanno versato nelle casse del Bel Paese solamente 64 milioni di euro. Briciole rispetto ai 2,4 miliardi di fatturazione medi annua. Ciò è sostanzialmente permesso da alcune leggi in merito alla web-tax che andrebbero totalmente revisionate.

Infatti, i soldi del profitto non rimangono per molto tempo nelle casse italiane. Molte delle multinazionali dell’e-commerce spostando le proprie sedi in veri e propri paradisi fiscali, riuscendo a versare una somma relativamente esigua dei propri ricavati agli Stati dove operano. Al contrario dei contributi dei piccoli esercenti, che per la maggiore finisco direttamente nel tesoro nazionale. Inoltre, i leader del settore hanno ormai raggiunto un tale potere finanziario che sono in grado di eseguire veri e propri ricatti allo Stato. Sempre secondo l’Institute for Taxation and Economic Policy (ITEP), lo scorso anno Amazon ha ottenuto uno sgravio fiscale di 129 milioni di dollari dal governo americano, l’equivalente di un’aliquota fiscale federale negativa dell’uno per cento. Questo sarebbe riconducibile al fatto che l’azienda di Bezos stia subendo delle forti avance dal governo statunitense per delocalizzare in territorio yankee il suo secondo quartier generale. Dalle considerazioni del documento, emerge la grande abilità del colosso della e-economy ad accumulare moltissimi crediti fiscali che le permettono di coprire le imposte sui suoi redditi. Per esempio, le perdite deducibili, o crediti fiscali legati ad investimenti. Questo ha fatto sì che nel 2018 l’azienda pagasse d’imposte una cifra prossima allo zero.

Per il commercio al dettaglio non saranno tempi felici

Tale fenomeno economico, inoltre, si basa su regole di lavoro molto ferree, che, soprattutto nei magazzini disseminati per il mondo, hanno riscosso molte critiche. Molti dipendenti hanno lamentato condizioni lavorative estremamente proibitive, fatte di turni massacranti e di paghe relativamente basse. Inoltre, andrebbe fatto anche un discorso qualitativo oltre che quantitativo. La difficile tranciabilità sulla provenienza della merce non è in grado di assicurare che tutte le norme europee sulle proprietà dei prodotti siano effettivamente rispettate. Tutti questi elementi producono il fatto che Amazon sia in grado di imporre prezzi estremamente concorrenziali, che non possono essere emulati dei piccoli esercenti. Ciò produce una reazione a catena che alla fine costringe alla chiusura molte piccole attività.

 Sul lungo periodo il danno che comporterà questo nuovo tipo di economia peserà in maniera determinante sul potere d’acquisto della popolazione e, non ultimo, influenzerà anche i caratteri sociali dell’interazione. Proprio quest’ultimo aspetto non è sfuggito a un altro grande imprenditore: Eric Yuan, fondatore e amministratore delegato di Zoom. La società americana di Yuan ha fatto registrare un aumento di capitale di circa 2,58 miliardi di dollari dall’inizio della pandemia. L’incremento del lavoro in remoto ha costretto molti dipendenti a scontrarsi con una tipologia d’impiego totalmente differente a quella precedente. Allo stesso tempo, però, ha diminuito nettamente i costi fissi delle aziende, le quali hanno sfruttato immediatamente l’opportunità presentatasi. Nonostante la parziale riapertura, infatti, molte realtà aziendali hanno prorogato il rientro in sede dei lavoratori anche fino a settembre. L’esperimento sociale di questa pandemia sembra abbia offerto ai grandi milionari una possibilità in più per incrementare il proprio fatturato.

Eric Yuan

Questo nuovo trend di mercato risulta molto preoccupante, soprattutto per le nazioni come l’Italia, che sulla piccola e media produzione e sull’artigianato hanno basato la propria ricchezza. Aprire le porte in maniera incondizionata all’e-commerce potrebbe provocare una lunga serie di fallimenti che metterebbe in ginocchio l’economia del Paese. La rimodulazione dei contributi richiesti dallo Stato a queste multinazionali appare impellente. Altrimenti il rischio che i prossimi dati forniti dall’Istat sul commercio al dettaglio siano ancor più tetri diventerà estremamente concreto.

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