A parità di impiego le donne hanno uno stipendio inferiore. E’ una questione culturale ma anche politica: manca un welfare adeguato che sostenga le madri lavoratrici.
Roma – Molte donne insegnanti o infermiere, molti uomini dirigenti! Negli ultimi tempi si è parlato spesso di divario retributivo di genere (gender pay gap). Con questo termine si intende la differenza tra il salario annuale medio percepito dalle donne e quello degli uomini, a parità di lavoro. Il problema è di pertinenza della politica, ma affonda le radici nel nostro retroterra culturale. Infatti, fino a pochi decenni fa le occupazioni più prestigiose e remunerate erano di competenza maschile e l’accesso per le donne era pressocché nullo. Questo perché nelle famiglie occidentali, ricoprendo un ruolo di cura della casa e di assistenza ai familiari, veniva, di fatto, loro vietato, un percorso di studio e carriera.
Le differenze di reddito sono attinenti sia alla paga orario che annuale. I dati diffusi dall’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea (UE), hanno evidenziato che nelle aziende al di sopra i 10 dipendenti, le donne percepiscono in media il 12,7% in meno degli uomini. Nel Belpaese, un dato sorprendente: solo il 5%, uno dei paesi europei col divario più basso! Ma ecco spiegato l’arcano: la struttura socioeconomica imprenditoriale italiana è formata, nella gran parte, da piccole e piccolissime aziende che si sottraggono a questa classifica. Il dato emerso, quindi, è statisticamente inattendibile. Scorrendo i dati INPS sui lavoratori dipendenti, salta all’occhio che il reddito medio annuale femminile è del 30% inferiore a quello maschile.
Lo stesso andazzo si verifica, più o meno, nel settore pubblico. Secondo l’Università Bocconi di Milano, che ha compiuto diversi studi sui differenziali di genere, il divario dipende da una serie di cause. Le più decisive sono quattro: la “segregazione orizzontale”. Le donne si indirizzano verso settori lavorativi che hanno stipendi, di per sé più bassi; la “segregazione verticale” con cui si ottengono basse opportunità di carriere per il genere femminile e si frappongono una serie di ostacoli verso il vertice della carriera; un dato inconfutabile: tra congedi parentali, aspettative per la maternità o d’altro tipo, contratti part-time e/o a tempo determinato, è chiaro che lavorino meno ore all’anno dei maschi e, di conseguenza percepiscono una retribuzione inferiore; la “quota residuale”, con molta probabilità, dipende dalla scelta ingiustificata del management aziendale di pagare meno le donne.
Questi dati sono confermati in tutta Europa, dove le donne sono “segregate” solo in alcuni settori: assistenza all’infanzia: segreteria; insegnamento nella scuola primaria e nidi; infermieristica, pulizie e collaborazioni domestiche. Non è che le donne lavorano in queste professioni per libera scelta, ma per pregiudizi culturali e sociali. Alcuni studi hanno evidenziato che in molte professioni le assunzioni, spesso, sono il frutto di stereotipi di genere relativi alle abilità e interessi nei campi di riferimento. Un altro dato che conferma il divario è quello relativo alle posizioni che si occupano all’interno di un’azienda. Le donne raggiungono il 58% dei ruoli impiegatizi e solo il 21% dei manager.
La differenza delle retribuzioni è spiegabile anche da questo aspetto. Se poi si considera che si dedicano alla cura della famiglia il quadro è completo. Inoltre, la disparità salariale, è emersa anche tra donne con figli rispetto a quelle senza, a svantaggio delle prime. Uno stato moderno, civile e democratico, ha il dovere di offrire le stesse opportunità a tutti, senza distinzioni di genere o di altro tipo. Non si può discriminare un genere, quello femminile, per una serie di stereotipi sul ruolo che esso debba recitare all’interno della società. Sono le istituzioni che devono intervenire, organizzando un welfare adeguato e una rete assistenziale che risponda ai bisogni delle donne, madri e lavoratrici. Non deve mancare, infine, un coinvolgimento maggiore dei “papà” per stabilire una vera parità!