Il lavoro domestico nobilita le donne e dà grande impulso all’economia

Nel saggio dell’esperta Elena Sisti la provocazione sul mondo femminile “inattivo” nascosto dietro i pregiudizi del “non faccio nulla”.

Roma – Il lavoro domestico è stato sempre poco considerato. Nella nostra società i lavori in casa sono stati sempre poco valorizzati, messi in un angolo, quasi invisibili. Ed invece sarebbe il momento di invertire la tendenza, almeno secondo Elena Sisti, economista, nonché autrice di un provocatorio saggio: “Le donne reggono il mondo – Intuizioni femminili per cambiare l’economia”. Con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale (IA), le faccende domestiche qualcuno dovrà pur farle o ci sarà qualche robot destinato alle incombenze? Chissà, lo scopriremo solo vivendo! Comunque sia, il fatto inconfutabile è che le pulizie di casa sono, nella quasi totalità dei casi, sulle spalle delle donne.

Sarebbe interessante sapere quanti e quali siano i diritti delle tante donne che si sobbarcano quotidianamente i lavori di casa. Oltre a questo aspetto, c’è da segnalare che il lavoro domestico ha un ruolo importante perché assume valore dal punto di vista di quello che è definito “lavoro riproduttivo” e fa da sostegno a quello puramente produttivo. Fino all’avvento della rivoluzione industriale, in generale, la produzione dei beni e servizi si realizzava all’interno delle mura domestiche, ognuno secondo i suoi bisogni e in maniera gratuita. Con lo sviluppo della “bottega” prima e della fabbrica poi, questa equa ripartizione dei compiti si è interrotta. L’uomo, andando fuori casa per lavorare, riceveva un compenso mentre la donna, alle prese con le faccende domestiche, prestava il suo servizio gratuitamente.

Si tratta, in realtà di una produzione enorme, che secondo alcune stime, in alcuni Paesi, potrebbe rappresentare fino al 40% del PIL (Prodotto Interno Lordo). Le stime sono puramente teoriche, nel senso che la forza lavoro dedita alla casa non è mai stata rilevata statisticamente, quindi non si conosce la vera percentuale. Un paradigma culturale così non poteva che produrre una concezione del lavoro domestico come una nullità. Questo, inconsapevolmente forse, viene ribadito dalle stesse casalinghe. Alla domanda se abbiano un’occupazione, ci si sente rispondere “non lavoro”.

Al contrario, sono oberati di impegni e competenze. Devono conoscere un po’ di meccanica e di tecnologia per gli apparecchi domestici, di chimica per detersivi, detergenti e quant’altro. Inoltre, competenze gastronomiche e culinarie. In pratica lavorano come un impiegato full time. Il rischio da evitare è che il riconoscimento giuridico del lavoro domestico possa essere un modo di tenere le donne nel focolaio domestico e allontanarle dal lavoro “fuori casa”. Un altro è che, continuando a essere impegnate nei lavori domestici, l’Istat continuerà a rilevarle come “economicamente inattive”.

Ed invece dovrebbero avere un riconoscimento dallo Stato e dalla società nel suo insieme, con una stima statistica certa, che non viene mai fatta per pregiudizi ideologici. Se pensiamo al lavoro di cura, ad esempio di quando un familiare viene dimesso da un ospedale, nella maggioranza dei casi, è la donna che se ne fa carico. O quando bisogna andare a prendere i bambini a scuola quasi sempre l’incarico tocca ad una donna, lavoratrice o meno. L’alternativa non può essere l’esternalizzazione del lavoro domestico, affidato, spesso, a immigrate che vengono da Paesi poveri per svolgere un lavoro poco o per niente professionalizzato, sottopagato e irregolare.

Con un welfare state efficiente questo tipo di lavoro meriterebbe di essere considerato alla pari di qualsiasi altro, perché fa da supporto a quello produttivo fuori casa, che senza di esso rischierebbe di svalorizzarsi. Ma col lo smantellamento di quel po’ di stato assistenziale rimasto, sembra più un miraggio che altro!

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email
Stampa