Milioni di persone in Turchia e Siria hanno visto la loro vita cambiata per sempre, quando lunedì due potenti scosse di terremoto hanno provocato onde d’urto per centinaia di chilometri.
Milano – Mentre in Italia siamo scrupolosamente avviluppati nell’analisi di ogni fondamentale dettaglio riguardante un evento, peraltro indubbiamente decisivo per il futuro dello Stivale, come il Festival di Sanremo (filtro sarcasmo attivo, ndr), tra dozzinali canzonette, polemicucce da quartierino, starnazzamenti vari e sfilate di presunti ego, a circa 3.300 km dalla città dei fiori si respira polvere, morte e disperazione.
Retorica? No, semplice e cruda verità. Mentre scriviamo, il bilancio è di oltre 12.000 morti, con un altissimo numero di dispersi, profughi e feriti gravi. L’Organizzazione mondiale della sanità stima in circa 23 milioni il numero delle persone colpite dal disastro. Almeno 6.000 edifici sono crollati, molti con i residenti ancora all’interno. La priorità assoluta sono gli sforzi per salvare le persone, con un contingente di circa 26.000 individui. Come se non bastasse, una forte perturbazione gelida sta interessando tutta la Provincia di Kahramanmaraş e tutto il sud del Paese.
La “guerra degli aiuti” a Turchia e Siria
Se per la Turchia si è mosso letteralmente mezzo mondo, capeggiato da Nato e Stati Uniti, non accade altrettanto per la Siria. A oggi Damasco conta oltre 2.000 vittime e nel Paese guidato da Bashar al-Assad la popolazione è già allo stremo a causa di 12 anni di guerra, dalla mancanza di servizi di base e la diffusione di malattie trasmissibili come il colera. La Siria è ancora sotto sanzioni occidentali dal 2011 e la carenza di infrastrutture, per usare un eufemismo, complica ulteriormente la situazione. Già prima del terremoto, in Siria, quasi tutta la popolazione dipendeva dagli aiuti umanitari per far fronte ai bisogni primari. Stiamo parlando di un Paese con 22 milioni di abitanti dove 15 milioni avevano già bisogno di assistenza umanitaria prima del terremoto e dove il 77% della popolazione ha un reddito che non è sufficiente per coprire i beni primari.
Nella zona della città di Idlib, ultimo fazzoletto di terra sotto il controllo delle opposizioni, non hanno diritto di accesso le grandi organizzazioni umanitarie internazionali e i soccorsi arrivano solo dal fronte turco. A complicare ulteriormente le cose ci si è messa anche la 19enne figlia di Assad, Zein, che su Instagram chiede di escludere le aree in mano agli oppositori del governo del padre: “Per favore, attenti a quelli a cui donate. Questo è un gruppo che sostiene terroristi a Idlib. Le donazioni non andranno ad Aleppo, a Latakia o a Hama”. L’unico corridoio valido per il trasporto degli aiuti è Bab al-Hawa, garantito da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Che però è compromesso dal sisma e quindi inutilizzabile. Ergo, gli aiuti arrivano a malapena, benché governo di Assad abbia aperto alla possibilità di far arrivare i soccorsi attraverso i territori controllati da Damasco.
Il conflitto tra Russia e Ucraina si riverbera anche in questa disgrazia. La Turchia è uno dei paesi più coinvolti, produttrice dei droni Bayraktar TB2 autentici protagonisti dei primi mesi di guerra, armi letali che hanno fatto strage dei carri armati russi. Ma di primo piano è stato anche anche il ruolo di Erdogan come mediatore tra Ucraina e Russia. Dall’altra parte la Siria può contare invece solo sul supporto umanitario di Russia, Cina e Iran.
Erdoğan a un bivio
Tornando alla Turchia e all’impatto che questo cataclisma potrà avere nel medio-lungo periodo, bisogna considerare che è un paese di 85 milioni di persone già impantanato in problemi economici, il cui esercito, economia, e politica hanno un impatto importante ben oltre i suoi confini.
La risposta di Recep Tayyip Erdoğan, presidente turco, al disastro e le potenziali richieste di responsabilità sul motivo per cui così tanti edifici non sono stati progettati per resistere alle scosse e la futura gestione della ricostruzione delle zone sbriciolate dal sisma giocheranno ora un ruolo importante nel suo futuro politico con le elezioni di maggio che si avvicinano.
È stato proprio Erdoğan a chiedere le elezioni mentre i turchi non se la passano benissimo a livello economico: l’inflazione locale è superiore al 57%, un sogno rispetto all’80% registrato tra agosto e novembre. Ma le promesse fiscali erga omnes fatte dal premier (aumento dei salari e abbassamento dell’età pensionabile) potrebbero passare in secondo piano dato che sarà prioritario indirizzare più fondi pubblici alla ricostruzione di intere aree urbane.
E l’Italia?
Una tragedia immane la cui violenza, di molto superiore agli ultimi terremoti che hanno sconquassato l’Italia, dovrebbe condurci a una riflessione su un processo endogeno: l’imperitura vulnerabilità sismica del nostro territorio. C’è urgenza di intervenire su molte infrastrutture ed edifici, che verrebbero letteralmente spazzate via da un sisma di magnitudo 7, che rappresenta per i sismologi italiani una sorta di “linea del Piave”, oltrepassata la quale ci sarebbe devastazione totale. Evento ancor più raggelante anche considerato il fatto che ha una cerca ciclicità storica: l’ultimo fu quello della Marsica nel 1915. 30.519 morti. Saggio sarebbe quindi correre ai ripari finché siamo in tempo anziché ritrovarsi a contare i cadaveri tra le macerie.