Italia, abbiamo un problema: pagare le pensioni

La natalità crolla e l’età media della popolazione italiana cresce inesorabilmente. Siamo i secondi più vecchi al mondo dopo il Giappone. E la previdenza sociale potrebbe andare in tilt.

Roma – La spesa per le pensioni, in Italia, è giunta a livelli tali che si rischia di non riuscire a pagarle. Questo è un triplice problema, nel senso che è legato al lavoro e alla modesta natalità. Da un recente studio a cura della CGIA (Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato) si evince che il nostro Paese è costituito più da pensionati che da lavoratori. Non si tratta di fare facili allarmismi, ma il Belpaese ha un grosso problema che va affrontato.

Il nostro sistema pensionistico si basa sul metodo contributivo. Ovverosia, i lavoratori oggi pagano i contributi previdenziali per garantire gli assegni pensionistici erogati dall’Inps. Nel computo sono compresi anche le coperture delle cosiddette “baby pensioni”, quelle versate a persone sui 40 anni d’età e calcolate con metodi più favorevoli rispetto all’attuale. La legge fu emanata nel 1973 dall’allora governo democristiano presieduto Da Mariano Rumor ed è restata in vigore fino al 1992. Se ne sono avvantaggiati i dipendenti pubblici andati in pensione dopo 20 o 25 anni di contributi o dopo 14 anni e 6 mesi e un giorno di servizio utili per le donne sposate con figli.

Il numero di pensionati ha superato quello dei lavoratori.

Una vergogna che, pare, condividiamo con la Grecia, che, infatti, è fallita. Se tra lavoratori e pensionati ci fosse parità numerica, il problema non si porrebbe. Ma purtroppo, come ha specificato la CGIA: “A livello nazionale il numero delle pensioni erogate agli italiani (pari a 22,759 milioni di assegni) ha superato la platea costituita dai lavoratori autonomi e dai dipendenti occupati nelle fabbriche, negli uffici e nei negozi (22,554 milioni di addetti)”. La situazione è squilibrata soprattutto al Sud, dove in 4 regioni: Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, i lavoratori sono in numero inferiore rispetto ai pensionati. Inoltre, a livello generale tra il 2014 e il 2022 la popolazione in età di lavoro è diminuita del 2,3%, pari a oltre 1,36 milioni di unità.

Uno dei fattori che produce questo divario è la denatalità, che sta seguendo una linea decrescente da almeno 30 anni. Un sistema siffatto, senza interventi di riequilibrio, ha i giorni contati. Inoltre, la criticità non sono solo le pensioni, ma anche altre uscite a carico dell’Erario. Ad esempio le attività di cura e assistenza alle persone, che con una popolazione sempre più anziana, non farebbero che pesare ancora di più sulle esangui casse dello Stato. Gli unici settori a beneficiare di una società di “vecchi” sarebbero il mercato immobiliare, della moda e del settore ricettivo. Senza dimenticare l’industria farmaceutica che con una popolazione in età avanzata ha bisogno sempre di più di farmaci e cure, avrà dei fatturati da capogiro. Lavoro e pensioni sono due categorie che vanno di pari passo. Con l’invecchiamento della popolazione e denatalità, c’è sempre meno forza lavoro giovanile specializzata a causa di una rigidità del sistema formativo e professionale che si adegua con fatica alle nuove esigenze di mercato.

Il tasso di natalità delle regioni italiane nel 2022.

Per porre rimedio e dare una svolta in controtendenza, gli esperti suggeriscono una serie di interventi. Tra cui: il potenziamento delle politiche per favorire la crescita demografica, come aiuti concreti alle giovani mamme, ai minori, alle famiglie; appoggiare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, innalzamento del livello di istruzione della forza lavoro che in Italia è tra i più bassi dell’Unione europea. Allungare la vita lavorativa, almeno per quelle categorie che svolgono attività intellettuale e impiegatizia. In una sola parola, c’è bisogno di un “welfare state” all’altezza degli ardui compiti da espletare. Non pare che le ultime decisioni governative vadano in questa direzione. Ma noi restiamo fiduciosi!  

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