Un foulard con un’origine lontana e legato ad un preciso momento storico degli Stati Uniti d’America. Oggi torna a essere esposto sulle teste di celebrità e ostentato quale segno di protesta.
Roma – Ogni epoca storica si è caratterizzata anche dalla capillare diffusione di un indumento, un copricapo, un oggetto. A testimoniare il fermento culturale del periodo. Tra gli indumenti più famosi, come non ricordare l’eskimo, quel giubbotto con cappuccio bordato di pelo, di fattura semplice, che porta il nome degli abitanti del Circolo polare artico.
Questo capo di abbigliamento è passato agli onori della storia durante le contestazioni studentesche del ’68, come simbolo del proletariato, in quanto il prezzo era a buon mercato e quindi accessibile alle fasce meno abbienti. In seguito, come succede nei processi sociali dei movimenti giovanili, diventò un simbolo della controcultura in cui si riconoscevano i militanti e i simpatizzanti di sinistra. All’eskimo fu, poi, aggiunta la kefiah, tipico copricapo palestinese, annodata al collo e che in origine era simbolo di patriottismo, per poi diventare simbolo di resistenza agli occupanti israeliani.
Negli ultimi tempi è salito alla ribalta il durag, un semplice, banale pezzo di stoffa. Un foulard per capelli utilizzato in svariati modi, che ha alle spalle un retroterra importante, può rischiare di finire nel dimenticatoio. L’origine della sua diffusione si ricerca in un momento storico molto aspro e conflittuale degli USA, tra il XVI e il XIX secolo, in cui la schiavitù aveva raggiunto livelli molto alti di sfruttamento. Gli studiosi hanno stimato che furono deportate dall’Africa circa 12 milioni di persone e, almeno, 645mila portate nei territori statunitensi. Nel 1860 gli schiavi avevano raggiunto la ragguardevole cifra di 4 milioni. Questo era il quadro storico-culturale in cui apparve per la prima volta il durag, indossato dagli schiavi afroamericani durante le ore di lavoro.
All’inizio serviva per tenere i capelli in ordine e puliti. È con la Grande Depressione, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, che il durag si trasformò nell’accessorio così come lo conosciamo oggi. Con il movimento dei diritti civili durante gli anni ’60, sorto per porre fine alla segregazione razziale e alla discriminazione, che il durag divenne un accessorio indispensabile degli afroamericani di qualsiasi ceto sociale. Rapper, atleti, cittadini comuni avevano il proprio simbolo di appartenenza. In alcuni Stati, però, ne fu vietato l’uso nelle scuole. Il motivo pare essere stato che quel foulard fosse utilizzato da membri di gang, spacciatori e criminali come segno di appartenenza.
La lunga mano dell’ingerenza delle istituzioni non tardò a palesarsi. Prima la National Football League (NFL) e poi la National Basketball Association (NBA) bandirono il durag. Questa presa di posizione scatenò un vespaio di polemiche. Per gran parte dell’opinione pubblica, la scelta delle due leghe sportive professionistiche statunitensi fu considerata di stampo razzista perché demonizzava un’espressione della cultura nera. Il durag, così, si trasformò da accessorio di moda della cultura afroamericana, a vero e proprio simbolo della lotta al razzismo. Non poteva mancare l’industria dei mass media a cogliere al volo l’occasione.
La famosa rivista di moda Vogue presentò ai suoi lettori una copertina con Rihanna, nota cantante, attrice e modella, che indossava un durag, accompagnato da un editoriale con fiumi di retorica e buoni sentimenti, contro ogni forma di discriminazione e a favore dell’inclusione sociale. Ora il rischio è che, alla fine di questo lungo processo di trasformazione, quando tutto finisce nello showbiz, il significato assunto negli anni si disperda.
Assumendone un altro. Diverso, se non opposto all’originario.