I due anni di pandemia hanno visto il dispiegamento del fenomeno delle great resignation o “grandi dimissioni”. Ma molti si sono ritrovati a tornare sui propri passi, constatando di aver preso una decisione forse troppo affrettata.
Roma – Quando lo si perde è complicato trovarne un altro! Il mercato del lavoro ha subito grandi stravolgimenti con la pandemia. Come si ricorderà molti hanno sperimentato il lavoro a distanza e altri sono stati licenziati. Si è verificato, però, un fenomeno controverso.
Ovvero, le cosiddette “grandi dimissioni”, nel senso che nel periodo del lockdown forzato molte persone hanno avuto un ripensamento sulla propria personale scala di valori. E hanno preferito rinunciare al totem del capitalismo, il lavoro appunto, per scoprire nuove prospettive di vita.
Tuttavia come capita sovente nei processi sociali, i mutamenti di alcune tendenze possono subire variazioni nell’arco di qualche anno. Negli USA si sta assistendo a un fenomeno in controtendenza, che è stato definito dalla grande stampa “il grande rimorso”. Cioè molte persone hanno preso consapevolezza di aver compiuto una grave sciocchezza nel lasciare il lavoro di propria iniziativa. Harris Poll, una società statunitense che dal 1963 effettua ricerche di mercato e analisi basate sui sentimenti, comportamenti e motivazioni degli adulti, ha condotto un sondaggio su 2.000 persone in cerca di lavoro. Ebbene è emerso che ben il 70% ha incontrato grosse difficoltà nel cercare una ricollocazione lavorativa. Mentre il 17% di chi desidererebbe cambiare lavoro, preferisce non farlo a causa della situazione socio-economica incerta.
Come dare loro torto visto che grandi aziende come Meta, Twitter e altre hanno annunciato migliaia di licenziamenti. È emerso, inoltre, che la ricerca di una nuova occupazione si è protratta per più di 6 mesi e, tra i fortunati, una buona percentuale manifesta insoddisfazione nell’equilibrio tra vita professionale e privata, che era stato il motivo principale delle “grandi dimissioni”.
Si ricorderà che questo fenomeno ha riguardato anche l’Italia. All’inizio il lavoro a distanza, soprattutto tra i più giovani, ha portato alla ricerca di impieghi che potessero garantire flessibilità oraria, per ottimizzare il tempo da dedicare alla propria quotidianità. Uno studio dell’Aidp (Associazione italiana del personale) ha evidenziato che le giovani generazioni non ritengono prioritario il fattore economico nella ricerca di una professione.
Predominano, infatti, il benessere personale e l’equilibrio tra il tempo per il lavoro e quello per la propria affettività. Gli ultimi dati diffusi dall’Ispettorato del Lavoro dimostrano che questo deficit di conciliazione dei due aspetti colpisce maggiormente le donne. E ti pareva, se non sono sempre loro a pagare il prezzo più alto! Il 77,4% di dimissioni ha riguardato donne con figli fino ai 3 anni e solo per il 22,6% gli uomini. Mentre per quest’ultimi le “grandi dimissioni” sono state determinate da un desiderio di lavoro più soddisfacente, per le donne è stato il frutto di una scelta obbligata.
Visto anche che un welfare attento al tempo delle donne con prole è molto carente, se non nullo, almeno in Italia. Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), organo di rilievo costituzionale con funzione consultiva rispetto al Governo, ha definito in maniera eloquente, quanto, purtroppo veritiera, il problema delle donne col mercato del lavoro: “Sono le ultime a entrare e le prime a uscire dal mondo del lavoro”! A quando una seria inversione di tendenza?