65 anni fa l’omicidio di Cosimo Cristina, il primo giornalista ucciso dalla mafia

Aveva soltanto 25 anni, ma il cronista di Termini Imerese con le sue inchieste stava scavando troppo vicino ai segreti del boss. Archiviata come suicidio, la sua morte è rimasta senza giustizia.

Palermo – Il 5 maggio 1960, un giovane giornalista di 25 anni, Cosimo Cristina, fu trovato morto sui binari del tunnel ferroviario di contrada Fossola, tra Termini Imerese e Trabia, in provincia di Palermo. Con il volto sfigurato e il corpo straziato, la sua morte fu frettolosamente archiviata come suicidio, una messinscena orchestrata dalla mafia per silenziare una penna scomoda. Fondatore del periodico “Prospettive Siciliane” e collaboratore di testate come L’Ora, Il Giorno, Il Messaggero, Il Gazzettino e ANSA, Cristina è riconosciuto come il primo dei nove giornalisti uccisi da Cosa Nostra nel dopoguerra.


Nato l’11 agosto 1935 a Termini Imerese, Cosimo Cristina si distinse fin da giovane per il suo talento e la sua determinazione. Figlio di un impiegato comunale, si avvicinò al giornalismo attraverso il padre, che lo introdusse al mondo delle redazioni. A soli 22 anni fondò “Prospettive Siciliane”, un foglio locale che, con il motto “Non lasciarti piegare”, indagava sugli intrecci tra mafia, politica e affari nella Sicilia degli anni ’50. Cristina si occupava delle cronache di Termini Imerese e della vicina Caccamo, mettendo nel mirino boss come Agostino Rubino e Santo Gaeta, figure di spicco della criminalità locale. I suoi articoli denunciavano il controllo mafioso su appalti, edilizia e traffici illeciti, attirando l’attenzione di Cosa Nostra in un’epoca in cui la mafia era ancora un fenomeno negato dalle autorità.

Collaboratore di testate nazionali, Cristina era noto per il suo stile diretto e per il coraggio di affrontare temi tabù. La sua inchiesta su Rubino, coinvolto in attività estorsive, e su Gaeta, legato al contrabbando, lo rese un bersaglio. Come scrive Luciano Mirone nel suo libro Gli insabbiati (1999), Cristina “stava scavando troppo vicino ai segreti dei boss”. Il pomeriggio del 5 maggio 1960, il corpo di Cristina fu trovato sui binari di contrada Fossola, vicino alla stazione di Termini Imerese. Il volto era devastato, il corpo presentava ferite multiple, ma gli investigatori conclusero frettolosamente per un suicidio. Un biglietto trovato in tasca, indirizzato all’amico Giovanni Caminiti, sembrava scusarsi per il gesto estremo: “Caro Giovanni, perdonami per ciò che ho fatto”.

Tuttavia, incongruenze emersero subito: Cristina indossava ancora gli occhiali, intatti nonostante l’impatto presunto con un treno; il biglietto era scritto con una calligrafia incerta, diversa dalla sua; e il corpo non presentava segni compatibili con un investimento ferroviario. L’autopsia fu negata, un’anomalia che rafforzò la tesi del suicidio. La famiglia, in particolare il fratello Vittorio, contestò la versione ufficiale, ma l’omertà e la complicità di alcune autorità locali insabbiarono il caso. Come denunciato anni dopo, la mafia orchestrò il delitto per eliminare una voce scomoda, con Rubino e Gaeta indicati come possibili mandanti da indagini successive.

Il caso rimase chiuso per decenni, ma il lavoro di altri giornalisti tenne viva la memoria di Cristina. Mario Francese, cronista de L’Ora assassinato nel 1979, indagò sul delitto, collegandolo agli interessi mafiosi a Termini Imerese. Francese scoprì che il fascicolo del vice questore Angelo Mangano, redatto nel 1960, parlava esplicitamente di omicidio e denunciava depistaggi, ma fu ignorato. Negli anni ’90, Luciano Mirone, giornalista e autore, riportò alla luce il documento di Mangano, evidenziando le incongruenze: il biglietto falso, l’assenza di autopsia e le ferite incompatibili con un suicidio.

Nel 2010, grazie alla pressione della famiglia e dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, il caso fu riaperto dalla Procura di Palermo. Una nuova autopsia, condotta su resti riesumati, confermò che Cristina morì per traumi multipli non riconducibili a un investimento ferroviario, ma a percosse e a una caduta violenta, compatibile con un’aggressione. Tuttavia, l’assenza di testimoni e la morte dei presunti mandanti (Rubino e Gaeta scomparsi negli anni ’70) impedirono condanne. Il delitto fu ufficialmente riconosciuto come omicidio mafioso, ma rimase senza colpevoli.

L’omicidio di Cristina avvenne in un periodo di transizione per Cosa Nostra. Gli anni ’50 videro l’ascesa della mafia imprenditoriale, con boss come Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo che si infiltravano nell’economia siciliana. A Termini Imerese, Rubino e Gaeta controllavano il territorio, sfruttando appalti e contrabbando. Cristina, con le sue inchieste, minacciava questo sistema, in un’epoca in cui il giornalismo investigativo era raro e pericoloso. La sua morte, come quella di Pietro Scaglione (1971), segnò l’inizio di una strategia mafiosa volta a colpire chi sfidava il potere criminale.

La negazione dell’autopsia e il depistaggio riflettono il clima di connivenze tra mafia e istituzioni locali, come denunciato da Giovanni Falcone anni dopo. Il caso anticipò altri omicidi di giornalisti, come Mauro De Mauro (1970) e Giuseppe Fava (1984), evidenziando il prezzo pagato dalla stampa libera.

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