Il Tar della Sardegna stravolge la sentenza del Palazzaccio sul reato di diffamazione. Dunque occhio a lamentele e accuse gratuite su Whatsapp. potrebbero costare un occhio della testa.
Cagliari – La sentenza contraddice la tendenza giurisprudenziale del passato. Sempre più sottile il confine tra pubblico e privato a causa della tecnologia. Si era stabilito che le conversazioni private non possedessero uno dei requisiti fondamentali che configurano il reato di diffamazione. Questa infatti prevede che gli insulti avvengano in un luogo pubblico, cioè vengano resi potenzialmente disponibili a numerose persone.
Il Tar Sardegna ha operato un’inversione di tendenza ritenendo lecito punire un dipendente pubblico responsabile di aver parlato in modo decisamente negativo dei suoi superiori in una chat di Whatsapp alla quale partecipavano altri colleghi.
Già su Facebook, Instagram e Twitter, piattaforme virtuali aperte a un vasto pubblico, il reato di diffamazione era punibile per la possibilità di divulgazione della maldicenza a un numero esteso di lettori. Una chat su Whatsapp, seppur di gruppo, è uno spazio virtuale chiuso, limitato ai partecipanti e, fino a poco fa, era considerato una conversazione tra privati a prescindere dal numero di utenti inclusi nella chat. La Corte Costituzionale e quella di Cassazione ritenevano che tali scambi tra privati non potessero essere catalogati come diffamazione, lasciando la libertà agli utenti Whatsapp di esprimere il loro malcontento su colleghi e superiori.
I giudici sardi hanno però voluto fare chiarezza su un argomento che è diventato spinoso negli ultimi tempi: il caso di colleghi che parlano male del datore di lavoro su una chat che riunisce appunto i lavoratori di uffici o enti. Come successo in questo specifico caso su cui si è pronunciato il Tar Saregna, nel momento in cui la persona presa di mira venga messa a conoscenza delle offese proferite in chat, questa può chiedere un provvedimento disciplinare commisurato alla gravità degli insulti ricevuti.