Non bastavano la guerra in Ucraina e le tensioni tra Serbia e Kosovo, adesso anche la Guyana diventa un tassello della sfida globale tra i due nemici.
Alzi la mano chi, senza consultare lo smartphone, sa dire dove si trovi la Guyana, o meglio la Repubblica Cooperativa di Guyana. Il nome basta e avanza per evocare l’intero corollario di stereotipi sul Sud America: giungle impenetrabili, oro, petrolio, dittatori e naturalmente povertà, che come al solito alligna dove il sottosuolo è ricolmo di ricchezze. Il paradosso regna sovrano anche in questa lingua di terra amazzonica – che è pur sempre più grande del Portogallo – con capitale Georgetown e una popolazione che non raggiunge il milione di abitanti, incastonata tra Venezuela, Suriname e a sud il Brasile. L’unico Paese del continente dove si parla inglese, retaggio di quando il territorio era colonia del Regno Unito.
Dimenticata da dio e dagli uomini fino al 2018 quando alcune trivellazioni nelle acque territoriali (Oceano Atlantico) hanno rivelato la presenza di notevoli giacimenti di greggio. Allora il vicino Venezuela si è ricordato di un’annosa disputa territoriale che dai tempi dei conquistadores spagnoli ha come oggetto una parte rilevante del territorio della Guayana , la regione Esequiba, e ha organizzato un paradossale referendum interno per chiedere al popolo se fosse favorevole ad un’annessione del territorio al di là del confine. Il 3 dicembre scorso la consultazione ha fornito l’esito scontato che Caracas si attendeva: al netto di non improbabili brogli sui numeri, avrebbero votato il 50% degli aventi diritto che si sono espressi a stragrande maggioranza per la prova di forza.
Il referendum non ha ovviamente nessun valore sul piano giuridico, ma è servito al presidente venezuelano Nicolas Maduro, atteso l’anno prossimo alle presidenziali, per regalarsi uno spot elettorale in pompa magna solleticando senza vergogna il più becero nazionalismo. E’ stato un dispendioso diversivo per sviare l’attenzione dei venezuelani dalla terribile crisi economica che attanaglia il Paese, ammorbato da inefficienza e corruzione. La forzatura ha però mandato in fibrillazione i governi dei paesi confinanti, in primis ovviamente quello della Guyana, e mandato all’aria il lavoro della Corte di Giustizia internazionale (il tribunale dell’Aja) chiamato dalla Guyana nel 2018 a dirimere una volta per tutte la questione.
La possibilità di un intervento militare di Caracas a seguito del referendum resta un’ipotesi poco praticabile, ma nulla allo stato può essere escluso perché anche la Guyana è diventata un tassello, seppur minuscolo e remoto, delle tensioni geopolitiche globali. Caracas è storicamente legata a filo doppio con Mosca, mentre la Guyana ha già trovato riparo diplomatico sotto la bandiera a stelle e strisce. A Maduro di certo non interessano i giacimenti della Guyana – il Venezuela è un gigante del greggio che riesce a sfruttare soltanto il 50% del proprio potenziale – ma a Mosca conviene soffiare sul fuoco di qualunque contesa che possa distogliere l’attenzione, e le forze, americane dal quadrante ucraino. L’interesse americano è ancora più scoperto: allungare le mani sulle licenze estrattive a beneficio delle proprie compagnie.