Unabomber: penalisti, “test Dna su 15 sospettati dovevano restare riservati”

Le camere penali, “Consacrare la presunzione di innocenza significa combattere la cultura iperbolica del sospetto prima del giusto processo”.

Roma – L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria delle Camere penali interviene sulla nuova inchiesta su “Unabomber”: 15 persone che “non sono neppure indagate”, perché nell’ambito dell’inchiesta bis la Procura di Trieste non ha trovato alcun riscontro su di loro, “sono state chiamate a sottoporsi ‘spontaneamente’ al test del DNA per non lasciare nulla di intentato. Questa seconda parte di accertamenti tecnici, delicatissima proprio perché a carico di persone non indagate – scrivono i penalisti -, avrebbe dovuto rimanere strettamente riservata (come prevede la legge) e invece la notizia filtra dirompente fra le maglie larghe dell’art.114 del codice di procedura e viene sbattuta a caratteri cubitali sul corriere della sera, un quotidiano ad ampia diffusione nazionale e sin qui, purtroppo, nulla di nuovo sul fronte del processo mediatico”.

Nel documento l’osservatorio mette in luce questa “corsa contro il tempo da telefilm americano, con le nuove tecnologie che tentano di rimediare il passato e cogliere una traccia di DNA che incastri finalmente l’assassino o gli assassini.  Dopo l’esito negativo del test sugli attuali indagati, l’autorità giudiziaria prova a controllare i geni di un secondo gruppo di persone, già in passato coinvolte ma riconosciute estranee alla vicenda, senza poterle riscrivere nel registro notizie di reato“.

Cittadini che “ormai da anni avevano chiuso il conto con la giustizia che, tornati innocenti dopo aver affrontato e superato orribili accuse (uccidere per divertimento o follia), oggi sono nuovamente catapultati nell’infamia del sospetto agli occhi dei loro cari, delle persone con cui lavorano, del loro mondo, tutti screditati prima ancora di vedere un giudice”. Non importa, fanno notare i penalisti, che “il giornalista si cauteli non facendo i loro nomi, anzi, è ora di smetterla di nascondersi dietro il riserbo ipocrita sui nomi, come se fosse sufficiente per evitare la gogna pubblica: il discredito deriva dalla notizia in sé (che doveva rimanere riservata perché così prevede la legge), chi conosce queste persone non ha bisogno dei nomi, sa già chi sono, il danno è fatto!“.

L’Osservatorio delle Camere penali attacca: “l’informazione in Italia è ormai fuori controllo eppur si parla di “legge bavaglio”, in un incessante attacco contro le riforme in tema di presunzione di innocenza, senza mai avvertire quella che da tempo è diventata un’esigenza ineludibile: codificare per legge un meccanismo di bilanciamento fra valori di rango costituzionale in conflitto, affermando finalmente una scala di priorità che per noi è evidente.  Il giusto processo penale viene prima di tutto, con la segretezza delle sue indagini preliminari e le informazioni, quelle di garanzia, vanno date soltanto a chi, presunto innocente, si trova a subirlo”.

Nel caso di Trieste, concludono, “non vi è proporzione alcuna fra l’interesse dell’opinione pubblica a saper (prima dell’esito) di nuove indagini condotte con innovativi e potenti mezzi scientifici e l’esigenza di consegnare il più infame dei sospetti a carico di 15 presunti innocenti, non ancora iscritti sul registro degli indagati. E ormai funziona così, proprio per tutti. Si pensi al caso della famosa Chiara Ferragni, precipitata, alla velocità di una stella cadente, dal firmamento degli influencer a tripla cifra alle polveri dei peggiori tra i comuni mortali, prima ancora che il suo nome fosse iscritto nel registro notizie di reato. O, ancor peggio, alla vicenda della meno conosciuta Giovanna Pedretti, ristoratrice del lodigiano, morta suicida, per non aver resistito all’ondata d’odio che l’ha travolta sugli stessi social che aveva utilizzato per diventare popolare e famosa”.

La conclusione del documento dei penalisti è affidata a una riflessione: “Consacrare la presunzione di innocenza e vederla rispettata significa combattere la cultura iperbolica del sospetto e della punizione prima di un giusto processo, salvaguardando la vita e i diritti dei cittadini, deboli rispetto alle pretese punitive dello Stato, che nel caso di Trieste sono addirittura reviviscenti. Significa rimettere al centro del sistema la persona e l’individuo, salvaguardandone la dignità e la vita, almeno sino a quando ci sia una sentenza definitiva di condanna”.

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