Le nuove regole europee prevedono una serie di obblighi per fornitori e sviluppatori di sistemi IA in base a livelli di rischio identificati.
Bruxelles – Il D-day dell’intelligenza artificiale è arrivato. I ministri dei Ventisette responsabili per le telecomunicazioni hanno approvato l’AI Act, il complesso di norme che disciplina lo sviluppo, l’immissione sul mercato e l’uso dei sistemi di IA in Ue. È il passaggio finale dopo il via libera nel marzo scorso del Parlamento europeo. E non poteva esserci finale migliore, quello di un traguardo raggiunto parlando con “una sola voce”, per parafrasare il commissario europeo al Mercato Interno, Thierry Breton. Il nuovo set di regole, il primo al mondo in materia, è stato adottato all’unanimità, a segnalare la compattezza dell’Unione davanti alle sfide poste dall’IA.
Un esito che per il relatore al Parlamento europeo dell’AI Act, Brando Benifei, “certifica la qualità del lavoro svolto su un tema di grande sensibilità politica e di mercato, che rende l’Ue il capofila globale nella
regolamentazione dell’IA”. La normativa si regge su un delicato equilibrio tra spinta all’innovazione e tutela dei diritti umani, della democrazia, dello Stato di diritto e della sostenibilità ambientale. Innovativo l’approccio al rischio adottato dal legislatore europeo grazie al quale si dettano una serie di obblighi a
fornitori e sviluppatori di sistemi di IA in base ai diversi livelli di rischio identificati. Quando è inaccettabile, scattano i divieti: è il caso ad esempio delle tecniche manipolative, delle pratiche di polizia predittiva, del riconoscimento delle emozioni vietato sul posto di lavoro e nelle scuole.
E ancora è il caso del riconoscimento facciale, il cui uso è consentito solo alle forze dell’ordine e soggetto a condizioni rigorose. Altra novità è il capitolo dedicato all’IA generativa, inserito in corso d’opera con
l’obiettivo di dare una prima risposta alla rapida diffusione di sistemi come ChatGPT. La legge promuove regulatory sandboxes e real-world-testing, istituite dalle autorità nazionali per sviluppare e addestrare l’IA innovativa prima dell’immissione sul mercato. L’AI Act vestirà i panni dell’ufficialità tra pochi giorni, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Ue, ma non si tradurrà subito in realtà.
La nuove regole saranno infatti applicabili solo tra due anni, con l’eccezione dei divieti, che scatteranno dopo sei mesi, dei controlli sui sistemi di IA per finalità generali, compresa la governance (12 mesi) e degli obblighi per i sistemi ad alto rischio (36 mesi). Chiusa quindi la fase legislativa, si apre ora quella altrettanto cruciale dell’attuazione, che per la vicepremier belga, Petra de Sutter “contribuirà all’autonomia strategica dell’Ue” perché, dice, “avere una legislazione che è una novità mondiale come l’AI Act, può essere un vantaggio competitivo ed è essenziale per la nostra sicurezza economica”.
Imperativo, spiega, “sfruttare il potenziale del mercato unico” e dotarsi di un “approccio coerente e omogeneo per sostenere le società nel loro percorso di adeguamento alle regole digitali”. Provando a fare dell’AI Act un volano d’innovazione per l’Europa. L’Italia rispetto all’Europa è in ritardo. Solo il 5 per cento delle nostre imprese nel 2023 ha utilizzato l’intelligenza artificiale: lontanissimi dalla Germania, dietro Spagna e Francia e al di sotto della media Europea. Abbiamo persino fatto un passo indietro rispetto al 2021. Solo la metà dei lavoratori, poi, ha in ufficio un computer o un altro dispositivo connesso e siamo fra gli ultimi per l’uso di programmi gestionali. Le nostre aziende sono consapevoli delle potenzialità della nuova frontiera tecnologica, ci dice l’Istat nel suo ultimo Rapporto annuale, ma incontrano molti ostacoli: gli alti costi, i problemi di sicurezza, ma anche la mancanza di competenze.
In pratica, ci sono pochi professionisti per far funzionare computer, reti di telecomunicazione, trasmissione di dati e rendere, così, operativa l’intelligenza artificiale. Solo il 4 per cento di tutti gli occupati in Italia è impiegato come informatico, relegandoci tra gli ultimi posti dell’Unione. Dove, comunque, si arranca. A Bruxelles il problema è noto, tanto che una fetta consistente dei soldi dei vari Pnrr è destinata a investimenti sul digitale. Roma può contare su una trentina di miliardi, in larga parte fondi comunitari. Soldi che servono per metterci in linea con l’Europa e ridurre le disuguaglianze esistenti all’interno del nostro Paese.