La storia di Cristian Calvagno, difeso dall’avvocato Giuseppe Lipera. Per la perizia le sue condizioni di salute sarebbero incompatibili col carcere.
Catania – Cristian Calvagno, classe ’88, si trova ristretto in carcere ma le sue condizioni potrebbero essere incompatibili con la detenzione. Soffre di una grave patologia depressiva e potrebbe commettere atti autolesionistici molto pericolosi. Avrebbe già tentato una volta di impiccarsi nella sua cella. Una storia drammatica, che racconta lo stato in cui versano molti reclusi testimoniato da un numero allarmante di suicidi. Il medico legale Pietro Piccirillo, su incarico dell’avvocato Giuseppe Lipera – che difende Calvagno -ha sottoposto a visita medica il 37enne di Biancavilla, detenuto dal 14 novembre scorso presso la Casa Circondariale “Bicocca” di Catania e dal 14 dicembre a Santa Maria Capua Vetere. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione del gip Stefano Montoneri, il 30 gennaio il medico ha potuto visitare Calvagno.
Nel valutare le attuali condizioni di salute e la compatibilità con il regime di detenzione in carcere, lo specialista medico legale è giunto a una conclusione. Il carcere “non può essere considerato come un luogo adatto alle sue cure atteso che, attraverso una valutazione operata in concreto, sebbene l’offerta terapeutica risulta coerente con la gravità delle condizioni di salute del soggetto, al contempo, la protrazione dello stato detentivo si pone come fattore di potenziale aggravamento della patologia depressiva, con il rischio affatto remoto di un ulteriore tentativo autolesionistico da parte del soggetto. Ecco perché si chiede di valutare la possibilità di far scontare la pena ai domiciliari, eventualmente con l’applicazione del braccialetto elettronico.
Nella relazione c’è l’anamnesi familiare: i suoi genitori sono viventi e in buona salute, ha due fratelli e una familiarità positiva per ipertensione, malattie vascolari e neoplasie. Si legge che il 37enne era un parrucchiere per uomo, ha una moglie e due figli, il maschio di 8 anni affetto da una grave forma di autismo e ed una femmina che non ha problemi di salute. Dal diario clinico all’ingresso risulta che Cristian ha negato la “dipendenza da sostanze stupefacenti e da alcol, e ha negato atti pregressi suicidari”. Eppure il 20 gennaio scorso il detenuto è arrivato in infermeria centrale accompagnato da altri detenuti e dagli agenti penitenziari in stato di agitazione. Avrebbe tentato di impiccarsi. Così viene richiesta una visita psichiatrica urgente e psicologica, con l’attivazione per supporter e sostegno integrato, attenta osservazione da parte della polizia penitenziaria.
Il giorno dopo al colloquio clinico il “paziente appare collaborativo, umore deflesso, sentimenti di colpa nei confronti dei figli con particolare attenzione del figlio autistico”. Il 24 gennaio al colloquio psicologico è depresso e riferisce vari sintomi tra cui vomito dopo i pasti e poco appetito. Così viene richiesta una visita psichiatrica urgente e colloqui di sostegno”. Al colloquio psichiatrico emerge la dinamica della tragedia sfiorata: il tentativo di togliersi la vita impiccandosi, ed è “ancora visibile il segno della corda al collo, umore marcatamente deflesso, con pianto interrotto”, e il continuo pensiero al figlio autistico. “L’importante sindrome depressiva reattiva alla lontananza dai familiari”, costituisce il dramma. Ecco perché “si stima un elevato rischio suicidario, pertanto appare opportuno mettere in atto tutte le misure atte a prevenire i tentativi suicidari in carcere”.
Ma non è finita: il 28 gennaio Cristian piange e continua con gli atti autolesionistici. Arriva in infermeria accompagnato da assistente su una sedia a rotelle. La disperazione per quel figlio autistico, a cui è molto legato, è insopportabile. Dagli esami e dalle escoriazioni si arriva a una conclusione: ha sbattuto più volte la testa contro il muro, ed ha lesioni anche a una mano. Lo stato d’ansia non lo abbandona e continua a professarsi innocente. Tanto da essere arrivato a tentare il suicidio, divorato dai sensi di colpa derivanti dal non poter fornire supporto al figlio. Nella relazione medico-legale si legge che “alla luce della qualità di assistenza erogabile nel caso concreto da qualsiasi istituto penitenziario, alle possibili scelte terapeutiche, ai rimedi indicati dai clinici e alle possibilità di giovamento che il detenuto può trarre in concreto dalla sospensione della misura cautelare in carcere, giurisprudenza e dottrina appaiono concordi – al fine di garantire l’effettività del suo diritto alla salute – sulla necessità di valutare le possibilità di cura all’esterno della struttura carceraria.
Insomma il 37enne avrebbe i “requisiti per il differimento dell’esecuzione della custodia cautelare in regime alternativo a quello carcerario”, ai domiciliari, “anche mediante l’ausilio di dispositivo elettronico per verificarne gli spostamenti.