Svuota gli armadi, fai bene alla Natura

Siamo nell’era degli acquisti compulsivi a fronte di una qualità scadente soprattutto negli indumenti che durano ormai solo qualche mese. Il danno all’ambiente, di contro, dura per sempre…

Guardaroba pieno, ambiente maltrattato! Quando la “fast fashion” (moda veloce) chiama, il consumatore risponde presente. Si tratta di un meccanismo che produce rapidamente grandi volumi di capi ispirati alle ultime tendenze delle passerelle a prezzi bassi. Questo sistema si basa sulla produzione accelerata per rispondere rapidamente alle mode, promuovendo un consumo frequente e un ciclo di vita ridotto dei prodotti.

Le caratteristiche principali sono il rapido passaggio delle tendenze nei negozi, l’uso di materiali economici, prezzi accessibili e un impatto significativo sull’ambiente e sui diritti dei lavoratori. Sono risultate eloquenti le immagini di alcuni bambini che giocavano tra montagne di vestiti scaricati dall’opulento occidente a Atacama in Cile o a Kantamanto nel Ghana, due delle discariche a cielo aperto di indumenti più conosciute nel mondo. Pare che qui venga scaricato il 40% degli scarti poiché invendibile.

La produzione è più che raddoppiata, mentre la durata di un capo è fortemente diminuita. Un settore che emette il 10% circa delle emissioni di CO2 e consuma acqua quanto i settori agricoli di interi Paesi. Peraltro il riciclo di fibre potrebbe produrre benefici all’ambiente e al mercato del lavoro e rinvigorire, in Italia, distretti famosi come Prato e Biella. Nel primo è stata rinverdita una tradizione antica ma dal sapore moderno: il processo di cardatura, una lavorazione che districa e allinea le fibre tessili rendendole parallele prima della filatura.

Questo processo può essere fatto su fibre corte, creando un prodotto finale voluminoso, soffice e peloso. Gli stracci, così, si sono trasformati in nuove lane, da cui si è alimentata un’economia circolare. Sull’esempio pratese, altre realtà hanno seguito l’esempio. Le istituzioni hanno mostrato timidi cenni di attivismo. L’Unione Europea (UE) con la “Strategy for Sustainable and Circular Textiles” ha introdotto l’obbligo della raccolta differenziata dei rifiuti tessili entro la fine di quest’anno.

Loro due ne sanno qualcosa di “acquisti compulsivi”… Foto da SpettacoloMania.it

Ma in altri Paesi, USA in testa, si procede a tentoni. Nel 3° mondo, l’ambiente resta in secondo piano, in quanto oberato da problemi più urgenti e drammatici da affrontare: fame, carestia, guerre, epidemie. Quando un oceano di persone si riversa eccitato e sedotto nei grandi magazzini per acquistare indumenti a basso costo, inizia la via crucis da Nord a Sud del pianeta. Solo l’Europa esporta annualmente 1,7 milioni di tonnellate di abiti dismessi, che vanno in realtà in cui latitano competenze e strutture idonee per lo smaltimento.

Gli economisti definiscono questo processo “dumping ambientale”, ossia spostare la produzione o lo smaltimento di merci e rifiuti verso paesi con normative ambientali meno severe. Chi se ne frega dei danni ambientali, dell’assenza di diritti sociali, l’importante è vendere a prezzi irrisori per il portafoglio dei produttori e la gioia delle mandrie umane! Le immagini dei bambini circolate sul web tra montagne di abiti dismessi, non solo testimoniano l’enorme sperpero compiuto, ma sono il sintomo di un’iniquità diventata insopportabile.

La “moda veloce” all’inizio era stata considerata dai suoi cantori una forma di democratizzazione, perché anche le fasce sociali meno abbiette potevano indossare abiti simili a quelli delle passerelle. Se è riuscita a soddisfare questo bisogno, ha, dall’altro, scaricato tutte le criticità sui Paesi poveri. Il consumatore, infine, cade nella trappola del bisogno emotivo, per cui si innesca un meccanismo compulsivo, amplificato dai social media, dove è importante apparire con un indumento nuovo.

Si riuscirà a porre fine a questo scempio, a cui la maggioranza delle persone, forse, partecipa inconsapevolmente? Intanto si può iniziare a svuotare il guardaroba di roba inutile, senza sostituirla con altra altrettanto inutile. E’ un segnale, poi chissà!