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Se lo stipendio di Mancini lo pagano (anche) gli automobilisti italiani…

I sogni di grandezza saudita, calcio compreso, si fondano sui petroldollari, così a Riad pompano meno greggio per tenere alto il prezzo: l’Occidente annaspa e Putin se la ride.

Roma – Passi per il patrio tradimento dell’ex commissario tecnico della Nazionale di calcio Roberto Mancini (al portafoglio non si comanda!), volato in Arabia Saudita nel nuovo Bengodi del calcio, ma che addirittura i tifosi della nazionale – nella quasi totalità anche automobilisti – si trovino costretti ad ogni pieno a contribuire in solido al faraonico stipendio del brizzolato ex golden boy della Sampdoria, è davvero troppo.

Eppure succede anche questo nel tormentato risiko del commercio mondiale del greggio, riflesso di un più generale mutamento delle alleanze geopolitiche. Il Rinascimento saudita (Renzi dixit) non vive di solo calcio – anche se nessuno sulle rive del Golfo Persico sottovaluta l’effetto del football come strumento di potenza e propaganda – semmai Ronaldo e soci rappresentano la scintillante punta dell’iceberg di un progetto se possibile più ambizioso inteso a rimodellare l’economia del Paese nella prospettiva di un progressivo sganciamento dal petrolio.

In quest’ottica di lungo periodo servono diversificati investimenti all’estero e contemporaneamente l’avvio di una solida politica industriale interna per dare prospettive ad una popolazione giovane che ha fame di lavoro. Senza dimenticare che L’Arabia Saudita ha oltre 1.500 chilometri di costa incontaminata che si affaccia sul Mar Rosso, un potenziale tesoro turistico di cui il pallone potrebbe farsi volano.

Saudi vision 2030

Il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman sogna in grande: entro il 2030 ha promesso la realizzazione di un faraonico progetto urbanistico a nord-ovest della capitale, una modernissima città nel deserto con tanto di università e piste ciclabili, con al centro un mastodontico cubo dorato di 400 metri per lato dove vivere straordinarie esperienze immersive grazie a tecnologie e ologrammi. Per quanto il portafoglio del principe sia di fatto illimitato, alimentato com’è dal sontuoso fondo sovrano Pif (Public Investment Fund), a Riad sono però consapevoli che la fortuna del regno resta almeno per il momento ancorata al prezzo del greggio.

Così quando gli sceicchi si sono accorti che nell’ultimo anno le quotazioni del barile tendevano ad attestarsi intorno ai 70 dollari, e a scendere ancora nonostante i tentativi di restringere le forniture, è scattato l’allarme rosso e la decisione a sorpresa dell’Opec + (il gruppo di paesi esportatori di petrolio guidato da Riad e Mosca) di tagliare la produzione di greggio di 1,6 milioni di barili al giorno. L’effetto immediato è stato quello di spingere in alto i prezzi del petrolio, restando in Italia i listini della “verde” in autostrada hanno già superato quota 2,5 euro al litro, con il rischio concreto di innescare una pericolosa spirale inflazionistica in Occidente.

Contemporaneamente, invece, al Cremlino Putin sorride, vagheggiando un costo del barile che si attesti intorno ai 100 dollari, quota che garantirebbe alla Russia un surplus di entrate necessarie a finanziare la guerra in Ucraina. Dietro i conti della serva tanto degli sceicchi quanto del nuovo zar russo si scorge però un più raffinato disegno geopolitico. Mostrando i muscoli Riad sottolinea la volontà di allontanarsi da Washington, di cui è stata storico partner di riferimento in Medio Oriente, per avvicinarsi a Pechino, primo importatore del petrolio saudita, e continuare ad esercitare una forte influenza su Mosca, senza per altro temere di perdere quote di mercato in Occidente.

I rapporti tra USA e Arabia saudita

Il rapporto tra gli Usa e l’Arabia Saudita aveva incominciato ad incrinarsi nel 2018 con l’uccisione del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi (lavorava per il quotidiano statunitense Washington Post) al consolato saudita di Istanbul. E una volta insediatosi alla Casa Bianca Joe Biden rese pubblico un rapporto di intelligence che accusava il principe ereditario saudita di essere il mandante dell’omicidio. Oggi il voltafaccia saudita sul greggio appare da Washington una ritorsione capace di mettere nei guai proprio Biden, già in clima preelettorale, e non è un segreto per nessuno quanto gli elettori americani siano sensibili al prezzo del gallone di benzina, tanto da ricordarselo fin dentro al seggio.

Di qua dall’Atlantico l’Europa recita come al solito la parte del vaso di coccio, al quale non è permesso, come invece agli Usa, maggiori produttori di petrolio al mondo, di attingere a risorse che non ha, destinata ad assistere passivamente ad un nuovo rialzo dell’inflazione, fantasma combattuto da Bruxelles a colpi di aumenti del costo del denaro, cura da cavallo che rischia di uccidere il paziente anziché guarirlo.

Rai – Bambole non c’è una lira, 1977

Manco a dirlo la guerra del greggio accesa da Riad getta nel panico anche l’Italia, già alle prese con una legge di bilancio annunciata di lacrime e sangue, che nella prospettiva di un continuo aumento del petrolio trasformerebbe il consiglio dei ministri in una riunione di questuanti con il cappello in mano ai quali la premier Meloni non potrebbe che rispondere “bambole non c’è una lira”.

Mentre agli automobilisti italiani attoniti di fronte al prezzo impazzito della “verde” comparirà beffardo il volto da eterno ragazzo di Mancini, con il suo ciuffo sempre più esiguo ma pur sempre ribelle, non più emblema di vittoria ma spettro di un salasso.  

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