L'uranio impoverito ha mietuto vittime su vittime e adesso fioccano le sentenze in tribunale che condannano lo Stato italiano ma nessuno chiede scusa alle famiglie delle vittime. Nessun governo lo ha fatto, men che meno quello attuale.
“…Mio figlio non è morto solo a causa dell’uranio impoverito, ma anche per l’omertà dello Stato contro cui ci siamo dovuti scontrare…”. Parole dure quelle di Nadia Gattoni, madre del caporal maggiore Emanuele Pecoraro, che non cerca compassione o pietà ma scuse. Solamente quelle.
Da quando Emanuele, “Il Pek” come erano abituati a chiamarlo amici e parenti, è mancato nel 2007, i genitori hanno cominciato una lunga ed estenuante battaglia affinché gli venisse riconosciuta la vera causa del decesso e per far in modo che il muro di silenzio e d’isolamento dove erano stati confinati i militari e le famiglie colpite dall’uranio impoverito si sgretolasse:
“…Emanuele faceva parte del 4° reggimento Genio Guastatori di Legnago – ci spiega Nadia – i famosi paracadutisti della “Folgore“. Aveva poco più di vent’anni quando è partito per la prima missione in Kosovo nel 1999. Successivamente è tornato nei Balcani nel 2001, per poi prendere parte alle spedizioni in Iraq e in Afganistan. Durante le saltuarie conversazioni che riuscivamo ad effettuare in quel periodo, Emanuele, raccontava che la loro attività principale era quella della cosiddetta bonifica del territorio: sminavano le strade e disattivavano gli esplosivi occultati nel terreno, estremamente pericolosi per la popolazione. Mi raccontava che spesso dormiva in fabbriche dismesse dove precedentemente erano state conservate diverse munizioni all’uranio impoverito inesplose…”.
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La voce di Nadia è ferma. Consapevole. Come quella di chi ne ha viste tante e ha dovuto scontrarsi contro una montagna. Non mancano, però, anche punte d’orgoglio materno, soprattutto ricordando i sacrifici che il figlio era solito compiere per aiutare il prossimo:
“…Il Pek credeva in quello che faceva – continua la madre. Amava i bambini che riusciva ad aiutare. Nonostante il contesto in cui si trovasse non ha mai perso il senso dell’umorismo. I suoi commilitoni spesso lo paragonavano a un Fiorello con la divisa. Con la sua ironia riusciva a contagiare chiunque si trovasse accanto a lui, anche le persone che incontrava all’estero. Abbiamo tantissime foto di Emanuele intento a giocare con i bambini del Paese dove prestava servizio…”.
Ma questa spensieratezza, però, non è durata a lungo. Tornato dall’ultima missione, “il Pek”, comincia ad avvertire una strana stanchezza, inspiegabile per chi come lui aveva sempre svolto attività fisica ed era sottoposto a puntuali visite mediche.
“…Nel 2006 mi figlio ha cominciato a sviluppare una tosse persistente e preoccupante. Un giorno il suo stesso allenatore di Basket – ricorda mamma Nadia – ci chiamò inquieto per il rendimento fisico di Emanuele. Sembrava costantemente stanco. In prima battuta pensammo che ciò fosse dettato delle fatiche prodotte in missione, ma in poco dopo capimmo che non era così. La situazione si aggravò in un esiguo lasso di tempo, e ben presto le nostre congetture diventarono un’amara verità. Quella che sembrava solo una legenda, una voce di corridoio delle caserme italiane, bussò alla nostra porta senza che fossimo minimamente preparati. Così, quando Maria, la fidanzata di Emanuele, ci contattò per riferirci che aveva ricoverato “il Pek” presso l’ospedale di Monfalcone, io già avevo capito di cosa si trattasse: cancro…”.
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Una volta in ospedale Emanuele viene sottoposto alle normali visite di routine. Qualcosa però non quadra. I valori sono tutti sballati, le analisi danno risultati non buoni e i medici sembrano sospettare il peggio:
“…Tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 – spiega la madre – abbiamo portato Emanuele all’istituto oncologico di Aviano, in provincia di Pordenone. In poco più si sei mesi ho visto mio figlio spegnersi giorno per giorno. Nei suoi occhi c’era la consapevolezza che non sarebbe più uscito dall’ospedale. Gli ultimi due mesi li ha passati in un letto da decubito, non parlava più, ormai aveva anche smesso di lottare. Nel luglio del 2007 è spirato. Il carcinoma si era diffuso in tutto il corpo, non c’era più nulla da fare. Ci siamo sentiti abbandonati da tutti: dallo Stato e dagli alti vertici dell’Esercito. L’unico rappresentante in grigio-verde che abbiamo visto in quel periodo è stato un medico-militare. Veniva, controllava Emanuele e poi andava via. Quando mio marito gli ha chiesto se si potesse trattare di uranio impoverito ha risposto con un categorico “no”. Da quel momento è iniziata la nostra battaglia per la verità…”.
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Nei primi anni Duemila dimostrare la correlazione tra cancro e uranio impoverito non era semplice. In merito al sottoprodotto radioattivo si sapeva ancora poco o, forse, si preferiva non sapere:
“…Quella parola era tabù – continua Nadia – nessuno voleva parlarne. Ricordo che quando feci presente l’ipotesi al primario mi rispose che dovevo lasciar perdere queste sciocchezze. Emanuele, dall’altra parte, non ne voleva parlarne. Come se tentasse si rigettare il più lontano possibile questa possibilità. Il motivo era che intorno alla questione uranio impoverito si innalzava un murò d’omertà e di silenzio in puro stile mafioso. Ancora non avevamo la certezza, ma i sospetti crescevano. Quando abbiamo chiesto alla clinica i risultati della biopsia, il personale ha cercato in tutte le maniere di ostacolare la pratica. Dicevano che non potevano darcela. Solamente dopo la minaccia di chiamare i carabinieri ci è stato fornito il referto. Tramite l’interessamento di Domenico Leggiero siamo entrati in contatto con la dottoressa Antonietta Gatti di Bologna, la quale ha analizzato i risultati. È emerso che il corpo di Emanuele era pieno di metalli pesanti: acciaio, titanio, detriti a base di calcio, calcio-bario, calcio-cromo-bario, calcio-alluminio-silicio…”.
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Da quel giorno Nadia attende le scuse di una classe politica che reputa colpevole e negazionista:
“…Provo rabbia vedendo Sergio Mattarella, perché lui in qualità di ministro della Difesa dal 1999 al 2001 sapeva cosa stava succedendo in Kosovo – afferma la madre di Emanuele – lui come molti altri politici hanno taciuto. Ricordo che le prime volte che siamo andati sotto il Parlamento per protestare insieme agli altri parenti delle vittime, siamo stati trattati come dei lebbrosi. Anche in politica succedeva qualcosa di strano: chiunque parlasse dell’uranio impoverito in qualche maniera veniva allontanato dalle cariche istituzionali. Chi sa perché?…”.
Sebbene la vicenda giudiziaria di Emanuele non sia ancora arrivata alla conclusione, nel 2010 finalmente è giunta la sentenza che da ragione a Nadia e a suo marito. Il caporal maggiore Emanuele Pecoraro è deceduto per cause strettamente correlate alla presenza di uranio impoverito nel suo corpo. “…Emanuele Pecoraro era invaso da metalli pesanti…”. Aveva scritto in atti il giudice del tribunale di Roma. Ma la ragione non è niente senza le scuse. La ragione non rende indietro un figlio:
“…Ancora nessuno ci ha chiesto scusa – conclude amareggiata Nadia Gattoni – nessuno si è assunto le colpe. Emanuele è stato la 52° vittima dell’uranio impoverito. Oggi sono più di 300, mentre gli ammalati hanno quasi raggiunto quota di 8.000. Io continuerò a lottare, a sostenere e incoraggiare chiunque sia stato colpito dalla medesima sorte di Emanuele. Credo che sia arrivato il momento della verità, dell’assunzione delle responsabilità. Non si potrà mai chiudere questo capitolo fino a quando le istituzioni non ammetteranno le proprie colpe e ci domanderà scusa. Fino a quel momento il contenzioso morale tra noi e lo Stato non avrà fine…”.
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