L’omicidio di Franco Lollobrigida riapre la ferita di un passato mai sanato, tra giustizia tradita e la pericolosa deriva della vendetta privata.
Rocca di Papa – Una vendetta covata per cinque, lunghi anni si è consumata martedì 8 luglio 2025 nei giardini pubblici di Rocca di Papa, quando Guglielmo Palozzi, 62 anni, operatore ecologico, ha ucciso Franco Lollobrigida, 35 anni, con un colpo di pistola alla schiena.
I fatti
L’omicidio è avvenuto intorno alle 10.45 di martedì in piazza della Repubblica, nella zona che collega l’area con via Matteotti. Secondo le ricostruzioni, Palozzi aveva aspettato Lollobrigida davanti ai giardini pubblici, sapendo che sarebbe passato da quelle parti. Un breve scambio di battute, poi una mano estrae l’arma e il colpo fatale.
Il proiettile ha colpito Lollobrigida alla schiena, sfiorando l’aorta. La vittima è riuscita a percorrere qualche metro, chiedendo aiuto ai passanti e pronunciando le sue ultime parole: “È il polmone, non respiro”, prima di stramazzare al suolo davanti agli avventori di un bar.
Le radici della vendetta
La tragedia di Rocca di Papa affonda le sue radici nel gennaio 2020, quando Giuliano Palozzi, 34 anni, figlio di Guglielmo, venne brutalmente picchiato per un debito di droga di appena 25 euro. Il giovane finì in coma e morì nel giugno 2021 al Policlinico Umberto I di Roma, dopo cinque mesi di agonia.

Per quell’omicidio, Franco Lollobrigida fu inizialmente assolto in primo grado nel febbraio 2024 ma successivamente condannato in appello a 10 anni per omicidio preterintenzionale nel maggio 2025. I suoi legali avevano presentato ricorso in Cassazione e, dopo un periodo di detenzione domiciliare per reati di droga, era tornato in libertà nel novembre 2024.
Le indagini
Dopo l’omicidio, Palozzi ha gettato la pistola nella vegetazione attorno a piazza della Repubblica, dove i carabinieri l’hanno cercata fino a martedì sera. L’uomo è stato fermato da alcuni passanti prima dell’arrivo delle forze dell’ordine e non ha opposto resistenza.
Sul posto sono intervenuti l’Ares 118 con ambulanza e automedica e un’eliambulanza è atterrata in piazza per trasportare Lollobrigida in ospedale. Nonostante i tentativi di rianimazione, per il 35enne non c’è stato niente da fare.
Le parole dell’avvocato
Fabrizio Federici, avvocato della famiglia Palozzi, ha commentato l’accaduto: “Non so cosa sia potuto succedere: un gesto inconsulto da parte di Guglielmo me lo sarei potuto aspettare dopo la sentenza di assoluzione. Ma non ora, a distanza di pochi mesi dalla condanna in appello. Certo è che il dolore per la perdita del figlio è stato veramente atroce”.
Il legale ha ricordato che Giuliano Palozzi era “l’anello debole della famiglia, che tutti cercavano un po’ di tutelare” e che Lollobrigida, “che di carcere ne ha fatto pochissimo, ha provocato al figlio del mio assistito gravissime lesioni al cranio per cui Giuliano è andato subito in coma e non si è mai più ripreso”.
Il profilo della vittima
Franco Lollobrigida si era sempre dichiarato estraneo all’omicidio di Giuliano Palozzi. Nel 2023 aveva ammesso di aver colpito il giovane con un pugno ma negava di essere responsabile della sua morte, attribuendo il decesso a un pestaggio commesso da altre persone. Tuttavia, secondo l’accusa, un suo messaggio dell’epoca – “Guarda, chiama tuo fratello perché ha preso una sventola. L’ho lasciato in condizioni gravi” – aveva rappresentato una sorta di confessione.

Il caso solleva interrogativi sulla giustizia e sulla vendetta privata. Mentre Guglielmo Palozzi si trova ora in carcere accusato di omicidio volontario, la comunità di Rocca di Papa rimane divisa tra chi condanna l’atto di giustizia fai-da-te e chi comprende la disperazione di un padre che ha perso il figlio.
La vendetta che non placa il dolore
La tragedia di Rocca di Papa ci mette davanti a una realtà difficile da accettare: la vendetta non porta mai sollievo, né a chi la compie né alla società. È come bere acqua salmastra nella speranza di dissetarsi: non placa la sofferenza ma la amplifica. Così la vendetta non sana le ferite ma le rende più profonde.
Il caso ha acceso un’ondata inquietante di reazioni sui social, dove in tanti hanno espresso il loro appoggio all’omicida, con frasi del tipo: “Ha fatto bene… Se lo meritava… La giustizia non funziona… Anch’io avrei fatto lo stesso…”. Parole che potrebbero rappresentare una deriva pericolosa. Abbiamo impiegato secoli per lasciarci alle spalle la legge del taglione, grazie al pensiero e al coraggio di chi ci ha mostrato che vendicarsi non restituisce ciò che è stato tolto ma aggiunge ulteriore sofferenza a chi già ne porta il peso.
Perdonare chi ti ha portato via un figlio è forse impossibile. Il perdono è un percorso lungo, che richiede tempo, sostegno e la guida di chi ha attraversato lo stesso inferno emotivo e ne è uscito senza cedere al rancore. L’uccisione di Franco Lollobrigida non ha alleviato in alcun modo il dolore di Guglielmo Palozzi. Anzi, ha distrutto definitivamente la sua vita e quella della sua famiglia.

La giustizia fai-da-te è un passo indietro verso tempi oscuri. Nessuno dovrebbe poter dire a cuor leggero che “ha fatto bene”. E chi non riesce a trovare parole di compassione, potrebbe avere almeno la saggezza di restare in silenzio. Le parole cariche d’odio sono come schegge incandescenti: una volta lanciate, non si sa più dove colpiranno. L’unica certezza è che provocheranno dolore.
L’unica parola capace di interrompere davvero il ciclo della rabbia e del dolore è “perdono”. È l’unico argine contro la piena dell’odio, della rabbia e della disperazione. Il silenzio, a volte, è un atto di responsabilità.