La madre e il padre del ricercatore morto in Egitto ospiti a Che tempo che fa hanno citato come testimone il presidente egiziano.
Roma – “Quel 3 febbraio del 2016 è stato tragico per noi, una batosta tremenda che ci portiamo dietro e non potremo mai dimenticare. Ma siamo impegnati in questa battaglia che portiamo avanti e dobbiamo affrontare la situazione man mano che si evolve”. Lo hanno detto Claudio Regeni e Paola Deffendi, genitori di Giulio Regeni, a nove anni dal ritrovamento del corpo del figlio, avvenuto il 3 febbraio 2016 nei pressi di una prigione dei servizi segreti egiziani. La coppia è stata tra gli ospiti della puntata di ieri a Che Tempo Che Fa (Ctcf), sul canale Nove, così come riferisce una nota.
A Fabio Fazio Regeni e Deffendi hanno detto ancora: “Abbiamo sentito tante cose durante il processo, cose che sapevamo, cose che non sapevamo. Tra le cose più pesanti direi le illazioni, che emergono anche nel processo… La prima cosa quindi resta sempre, fin dall’inizio, la difesa della dignità della persona di Giulio,
comunque ancora”. I genitori dello studente friulano hanno ricordato che “I quattro avvocati d’ufficio sono andati a spulciare la vita personale di Giulio, i conti correnti, la sua vita sentimentale, qualsiasi aspetto che potesse dare adito a qualche zona grigia”. Poi l’annuncio: “Citeremo come testimone il presidente egiziano Al-Sisi e suo figlio Mahmoud. Noi lo aspettiamo il 12 febbraio alle 9.30 a Roma al Tribunale di Piazzale Clodio, Aula Occorsio”.
I genitori di Regeni dicono di aver “inviato la notifica tramite l’Ambasciata egiziana a Roma e in più è stata pubblicata sulla pagina Facebook e su Messanger personale del Presidente, sicuramente l’ha ricevuta”. La mamma, Paola Deffendi, assicura: “Ho controllato venti minuti fa e c’è ancora sulla sua pagina Facebook”.
L’intervista si è conclusa con un appello alla liberazione di Alberto Trentini, il connazionale in carcere in Venezuela. Il 21 gennaio scorso la madre di Regeni, in Aula aveva ricordato lo strazio del ritrovamento del corpo del figlio 9 anni fa. Esattamente nove anni fa.
“Quando portammo in corpo di Giulio in Italia, lo vidi per la prima volta, solo il profilo frontale, sul tavolo dell’obitorio al policlinico Umberto I di Roma. In quel momento vidi tutta la brutalità utilizzata su di lui”. Parole drammatiche quelle di Paola Deffendi, la madre di Giulio Regeni, nella testimonianza davanti ai giudici della prima corte d’Assise di Roma. Nel corso dell’udienza del processo per il sequestro, le torture e l’omicidio del figlio, assassinato al Cairo, in Egitto, la donna ha ripercorso i particolari della tragedia. Quel 3 febbraio era la giornata in cui la ministra Guidi e diversi imprenditori erano al Cairo. Era una occasione per dare attenzione sul caso di Giulio. L’ambasciatore ce lo disse ‘al Sisi sarà informato direttamente’”. Ad un certo punto di quel 3 febbraio, “ci chiama l’ambasciatore e mi dice: ‘stiamo arrivando con la ministra Guidi’. Ci diciamo o riportano Giulio oppure c’è qualcos’altro. L’ambasciatore richiama e aggiunge ‘Ho un ritardo di 10 minuti, ma non porto buone notizie’. Io ho pensato delle cose e mio marito anche”.
E ancora lo strazio del racconto: “In casa di Giulio, dove eravamo con mio marito, sono arrivati l’ambasciatore e la ministra. Ci hanno abbracciato e fatto le condoglianze. Non so quel che mi hanno detto e fatto. Avete 5 minuti di tempo, perché tra poco sarà certamente diffusa la notizia. Non abbiamo detto nulla con mio marito. A quel punto non sapevo come dirlo a mia figlia. L’ho detto a mio fratello. E’ stata una telefonata molto forte. Il 4 febbraio siamo andati via da quella casa ‘veloci, veloci, veloci’, come chiese la console. Andiamo all’ospedale italiano del Cairo ci troviamo un sacco bianco con il ghiaccio intorno. Avevo l’illusione che non era Giulio. Chiesi che mi venissero mostrati i piedi. Una suora mi dice ‘sa che suo figlio è un martire?’”.
E ancora, il drammatico racconto di un teste protetto sentito in aula nel processo a carico di quattro 007 egiziani per la morte di Giulio Regeni che ha riferito quanto sentì raccontare da uno degli imputati in un ristorante a Nairobi nel settembre del 2017. “Sentii dire dal maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif: ‘nel nostro paese abbiamo avuto il caso di un accademico italiano che pensavamo fosse della Cia ma anche del Mossad. Era un problema perché era popolare fra la gente comune. Finalmente l’abbiamo preso: lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto. Io l’ho colpito’”.