Re Giorgio, il “comunista socialdemocratico” che piaceva a Washington

Prima del doppio mandato al Quirinale, Napolitano ha vissuto la lunga militanza nel Pci tra le fila della minoranza riformista, posizione che gli costò la segreteria a favore di Berlinguer.

Per ripercorrere la vita e l’impegno politico del presidente emerito Giorgio Napolitano – morto ieri a Roma all’età di 98 anni – si potrebbe cominciare dall’ultimo quarto di secolo, quello scintillante del plauso (quasi) unanime, degli oneri ma anche degli onori ai massimi livelli. Il periodo dei record: nel 1996, governo Prodi, è il primo ministro degli Interni ex comunista, nomina che sancisce la fine di una pregiudiziale quarantennale; sarà poi il primo Presidente della Repubblica giunto dalle fila degli ex Pci e il primo della storia repubblicana, seguito da Mattarella, a venir eletto, per acclamazione, ad un secondo mandato.

Ma voler restituire il senso di un’esistenza lunga un secolo fermandosi ai soli fotogrammi che ne colgono l’apice risulterebbe una forzatura. Nel caso di Napolitano, prima di tutto politica. Perché il presidente emerito ha vissuto la maggior parte della sua lunga esperienza politica in minoranza, mai ai margini o nell’irrilevanza, ma sempre controcorrente. Negli anni Ottanta all’interno del Partito Comunista ereditò da Giorgio Amendola, di cui fu discepolo, lo scettro di capo della corrente migliorista, quelli che oggi si direbbero i riformisti, termine che allora a Botteghe Oscure non suonava esattamente come un complimento, infatti l’etichetta gliel’aveva appiccicata Pietro Ingrao, che stava esattamente dall’altra parte della barricata.

Erano i compagni eretici che sostenevano la necessità di dialogare con l’odiato Craxi, che guardavano all’esperienza del laburismo inglese, alla socialdemocrazia tedesca e ai socialisti francesi, movimenti progressisti europei che si alternavano al governo con i conservatori, mentre il Pci continuava a languire nella quarantena decretata dal suo rimanere in mezzo al guado, tra l’ossequio all’ortodossia sovietica e la scelta di campo e radicale a favore delle libertà occidentali.

Napolitano era un comunista socialdemocratico, più affascinato dal New Deal americano che dai piani quinquennali, antifascista senza essere anticapitalista, troppo gradito ai borghesi e agli imprenditori illuminati per non suscitare sospetto nella sinistra dura e pura. Sospetto radicato che gli costò la segreteria del partito, quando all’inizio degli anni Settanta, a lui discepolo dell’allora capo Luigi Longo venne preferito Enrico Berlinguer, considerato un figlio più autentico del partito. Con Berlinguer polemizzò apertamente quando il segretario varò la stagione della “questione morale”, distinguo giudiziario e antipolitico nel quale Napolitano intravvide l’inizio di un populismo che avrebbe distrutto i partiti.

Berlinguer segretario del Pci: in corsa c’era anche Napolitano

Ma il quel Partito Comunista il futuro presidente recitò allora il ruolo del perdente. Coerente, meticoloso, rispettato, ma incapace di cogliere la leadership e lasciare il segno in una transizione che sotto la sua egida sarebbe stata più celere, senza attendere la caduta del Muro per cambiare la denominazione della ditta. D’altronde non era uomo avvezzo all’avventurismo politico, allergico com’era ad ogni forma di settarismo e radicalismo, incline piuttosto a moderazione e cautela, alla rottura preferiva l’insistito dialogo. Pagò questa ortodossia con la pagina più dolorosa della sua biografia politica, quella dell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, cui Napolitano plaudì allineandosi alla linea filosovietica imposta da Togliatti. Seppe poi fare pubblica autocritica di quella scelta, che però considerò una macchia indelebile.

La cautela che ne affossò le ambizioni nel partito, divenne invece una dote da spendere a livello internazionale quale segno di una naturale leadership, solida e affidabile, che lo fece diventare un interlocutore rispettato dell’establishment politico ed economico. Al punto da meritarsi la stima e la considerazione degli americani, unico leader politico di sinistra ad essere ammesso negli States, ancora in periodo di guerra fredda, con in tasca la tessera con la falce e il martello. Le stesse doti che nella sua seconda vita, quando già pensava di essere pensionato, lo proiettarono al Quirinale nel ruolo di solido baluardo di una Repubblica in crisi.

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