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Quei bambini sofferenti negli spot televisivi: può la nobile causa giustificarne l’utilizzo?

La Carta di Treviso raccomanda “particolare attenzione per evitare il sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona”.

Roma – Il problema non è il fine, difficile davvero trovarne di più alti e meritevoli, quanto il mezzo utilizzato per raggiungerlo. Se sia da considerare lecito, ed etico, utilizzare immagini di bambini malati, oppure poverissimi, ritratti senza filtri nella tremenda quotidianità del loro dramma, per smuovere la coscienza del telespettatore accomodato sul divano e indurlo così ad una donazione a favore dell’organizzazione che promuove l’assistenza e la cura degli stessi minori o la ricerca scientifica che si occupa delle malattie dai quali sono affetti.

Possono le migliori intenzioni di questo mondo giustificare l’esposizione di minori malati? Quelle che scorrono sulle nostri televisioni tra un film e un talk show, una partita di calcio o un video musicale, sono spot costruiti su immagini crudissime, accompagnate da dolenti voci fuori campo, non di rado dalle testimonianze disperate di genitori aggrappati alla tenue speranza rappresentata dalla ricerca.

Tutto è predisposto per massimizzare lo choc emotivo dello spettatore, tanto le sequenze dei bambini sottoposti da malattie rare ad indicibili sofferenze, quanto quelle che ritraggono altri piccoli afflitti da malnutrizione e assenza di cure in una delle tante periferie del mondo; istantanee crudeli, amplificate dall’esposizione dei visi di quelli innocenti, accompagnate dalla disperazione delle madri e dei padri.

La nudità della sofferenza ha come unico scopo quello di indurre empatia in chi assiste, muovere un sentimento di istantanea commozione che induca a donare subito, come se quel gesto potesse interrompere il prima possibile il supplizio che scorre sul video.

Non è in questione la buona fede delle famiglie, e neppure quella delle organizzazioni scese in campo per aiutarle. C’è da essere certi, anzi certissimi, che quelle madri e quei padri abbiano autorizzato le riprese. Perfino la scelta di presentare la sofferenza quotidiana senza frapporre nessun filtro, trova una sua giustificazione nella necessità di non fare della malattia uno stigma, di non usare l’orrore della sofferenza come pretesto per nasconderla agli occhi del mondo.

Al netto di tutto ciò resta però il dubbio di una forzatura, la consapevolezza che quella sovraesposizione tocca essere umani ai quali non è dato modo di difendersi, incapaci di esprimersi, impossibilitati a manifestare forme di difesa della propria dignità. La Carta di Treviso da questo punto di vista non lascia margini di interpretazione: “Nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona“. Nata come forma di autoregolamentazione giornalistica, la Carta ha poi saputo diventare negli anni un argine credibile a difesa dei diritti dei bambini, e ancora di più di quelli disabili.

La questione interroga le modalità della comunicazione. Non esiste altro modo per toccare il cuore, e il portafogli, degli spettatori che aggredirli con immagini di inusitata crudezza? Il marketing stima così alta la nostra soglia dell’orrore da non considerare la possibilità di muoverci a compassione senza obbligarci a sopportare elettroshock emotivi? Davvero siamo diventati così cinici?

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