Sopra i cieli della Capitale il 19 luglio del 1943 si scatenò l’inferno: un girone micidiale fatto di bombardieri in formazione pronti a sganciare quintali di ordigni che toccarono terra poco dopo le 11 del mattino. Morti, feriti e ingenti danni alla Città eterna. Nessuno era immune, nemmeno il Vaticano e l’Asse vacillava. Mussolini, ormai decentrato e impaurito, iniziava le mosse che lo porteranno alla definitiva disfatta.
Roma – Lunedì 19 luglio 1943 sono le 11 del mattino e il cielo sopra la Capitale si trasforma in scacchiera: le ali dei bombardieri pesanti B17 e B24 e 300 bombardieri medi B26 e B25, scortati da 268 caccia Lighting, disegnano fra le nuvole traiettorie secche di chi ha deciso di spaccare in due la terra. E non solo.
Sì perchè nessuno si immaginava che Roma, la Città eterna, si sarebbe dovuta inginocchiare ai bombardamenti e invece. Occorre però fare un piccolo salto indietro. Nove giorni prima, il 10 luglio, in Sicilia, le radioline dei militari impazziscono: “Inizia lo sbarco sull’isola, al via l’operazione Husky“. Gli americani sono sbarcati e serve agire in fretta. Devono contenere e annientare le forze dell’Asse e sanno che devono farlo a tutti i costi. E non importa se tradotto strategicamente significa lanciare bombe su Roma, perchè ormai nessuno è immune, nemmeno se hai uno scudo che si chiama Vaticano.
Dunque, ogni promessa è debito, specie in guerra, se è mondiale poi, manco a dirlo. Lunedì 19 luglio di ottanta anni fa arriva direttamente dal ministro degli esteri Anthony Eden il via libera a bombardare. Si parte da due obbiettivi sensibili: gli aeroporti di Ciampino e Littorio. Mussolini lo sapeva. Sapeva che se non “puliva” la capitale dai centri di comando, prima o dopo, gli americani avrebbero, per usare un termine che tanto piaceva al Duce, bonificato l’area. E così è stato. Si è detto, ogni promessa è debito.
La Raf sostiene l’attacco, hanno anche loro interessi a spezzare le ginocchia al Duce in tempi brevi. L’esercito inglese si prepara, prende accordi, studia le mosse, ma entrambe le forze decidono che non dovrà essere un attacco a sorpresa: bisogna cercare di “limitare i danni”. Fa ridere quando si parla di bombardamenti, si sa, ma tant’è. Nella notte tra domenica e lunedì, diversi bimotori Wellington della Raf sorvolano la città e lanciato 80.000 volantini nei quali intimano i romani ad allontanarsi dal perimetro urbano e di stare lontani dagli obiettivi militari.
Intanto, Roma continua a subire l’attacco, è ormai una creatura ferita, bersagliata. Si è fatto pomeriggio inoltrato e dal cielo centinaia e centinaia di tonnellate di bombe radono al suolo i quartieri Prenestino, Tiburtino, Tuscolano e San Lorenzo. Oggi a distanza di sicurezza si contano i danni, le cifre esatte e sterili di una guerra totalizzante: la capitale registrerà 717 i morti e 1.599 i feriti, ma la cifra dei caduti è sempre difficile da quantificare.
Senza fine la stima invece dei danni materiali. Rimarrà nella storia come simbolo di una caduta, di una sconfitta, i fotogrammi di Pio XII, eccezionalmente uscito dal Vaticano in automobile, che allarga le braccia, e congiunge le mani in preghiera: si lascia cadere sulle ginocchia e intona il De profundis davanti a ciò che resta della basilica di San Lorenzo fuori le Mura. Lo stesso Vittorio Emanuele III e la regina Elena offrono sostegno, sottolineano la loro presenza, e donano un milione di lire alle “famiglie indigenti della capitale, colpite dalle incursioni aeree”. La libertà ha un prezzo, lo ha sempre avuto e l’Italia ne sa qualcosa, Roma compresa.