Il lavoro da remoto è davvero ecologico? I nomadi digitali aumentano viaggi e consumi, mettendo in discussione la sostenibilità dello smart working. Ecco cosa dicono i dati.
Lo smart working, altrimenti detto “lavoro agile”, è definito, come recita il sito istituzionale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali “una particolare modalità di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato introdotta al fine di incrementare la competitività e di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e lavoro”. Il suo momento di massimo sviluppo si è registrato col lockdown durante la pandemia.

In realtà, in molti casi, si è trattato di aver spostato il lavoro dall’ufficio alla propria abitazione e il lavoratore ha continuato ad essere un dipendente. I nomadi digitali, invece, sono lavoratori “freelance”. Anch’essi utilizzano le tecnologie digitali per lavorare da remoto, ma a differenza dei lavoratori “smart working”, sono autonomi senza essere legati a sedi fisiche.
Negli ultimi tempi sono state effettuate numerose ricerche sull’utilità del lavoro in presenza, da remoto o sia l’uno che l’altro, per meglio soddisfare la conciliazione tra vita privata e lavoro. Le scienze sociali sono quell’insieme di discipline che si occupano di studiare l’essere umano e la società attraverso l’impiego del metodo scientifico. Dimenticando, a volte, che, spesso, il fattore umano è imponderabile e che può sfuggire a qualsiasi tipo di inquadramento concettuale. Dopo aver esaltato le doti del lavoro da remoto, in quanto riducendo gli spostamenti quotidiani da pendolarismo lavorativo, diminuisce l’inquinamento da emissioni, ora pare che non sia più così, soprattutto per i nomadi digitali.
I ricercatori sociali, spesso menti sopraffine, per risolvere l’arcano, si sono chiesti: “Qual è l’impatto ecologico dei nomadi digitali, tenendo conto che un solo volo intercontinentale, andata e ritorno, immette nell’aria più CO2 (anidride carbonica) di un anno di spostamenti in tram. Quindi, vanno considerati i consumi energetici individuali e la crescita dei viaggi aerei, che come si è visto, rendono difficile una valutazione esatta dell’effettiva influenza ecologica del lavoro da remoto dei nomadi digitali. Questa categoria di liberi professionisti, possono lavorare in diversi settori, quali il marketing digitale, la scrittura, la programmazione, la grafica, la fotografia, il videomaking e utilizzano la flessibilità lavorativa per spostarsi tra città e Paesi diversi. Secondo le stime più attendibili al mondo circolano circa 35 milioni di nomadi digitali, di cui la metà solo negli USA.

Oltre al maggior inquinamento da CO2 prodotto dai voli intercontinentali rispetto al trasporto urbano, c’è da registrare la mancata ottimizzazione del consumo energetico nei confronti di un luogo o ufficio fisso. Ad esempio, particolari luoghi scelti dai nomadi digitali come Indonesia, Portogallo o Colombia stanno registrando una crescita della domanda d’acqua, servizi pubblici ed elettricità, col relativo impatto ecologico immaginabile. Lavorare da casa può produrre un incremento del consumo di energia elettrica fino al +30%, mentre in ufficio esso è più concentrato in un solo luogo.
La riduzione del traffico urbano è un fatto acclarato. L’Agenzia Europea dell’Ambiente, ha calcolato che il lavoro da casa ha contribuito a diminuire le emissioni di CO2 dei trasporti, nelle grandi città tra il 2020 e il 2023, del -15%. Senza dubbio si possono ottimizzare i vantaggi del lavoro da remoto, come ad esempio creando luoghi di co-working ecologici, un modo di lavorare a metà tra casa e ufficio, per avere un più basso impatto ambientale. Da casa, in ufficio o da remoto, pare che il lavoro produca solo danni, individuali (burnout) e collettivi (inquinamento). Non sarebbe il caso di abolirlo? Pura chimera!