La scoperta rappresenta un altro importante traguardo nella lotta contro la pandemia, in attesa che il vaccino sia disponibile e soprattutto "sicuro" per tutti. La ricerca scientifica deve essere incentivata e dotata di risorse finanziarie adeguate.
Milano – Sfingosina-1-fosfato è il nome della molecola “spia” scoperta nel sangue. Potrebbe essere decisiva per scoprire se un paziente infetto da Sars-CoV-2 rischia di sviluppare o meno una grave forma della malattia, in modo da intervenire tempestivamente.
A identificarla è stato uno studio italiano frutto della collaborazione tra l’Università di Milano, il Policlinico di Milano e l’Aeronautica Militare con l’Istituto di Medicina Aerospaziale di Milano. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Embo Molecular Medicine.
La ricerca, condotta su 111 pazienti, ha dimostrato che bassi livelli di Sfingosina-1-fosfato sono associati a una maggiore probabilità di sviluppare un quadro clinico grave tale da richiedere il ricovero in terapia intensiva e un eventuale maggiore probabilità di exitus sfavorevole. La molecola misurata attraverso un semplice prelievo ematico, fin dai primi sintomi, potrebbe fornire importanti informazioni che consentirebbero il potenziamento dei protocolli nei pazienti a più alto rischio:
“…I dati analizzati – spiega Giovanni Marfia, del laboratorio di Neurochirurgia Sperimentale e Terapia Cellulare del Policlinico di Milano e medico del Corpo Sanitario Aeronautico – ci hanno consentito di determinare un valore soglia di Sfingosina-1-fosfato, misurabile dopo un prelievo ematico già al momento della manifestazione dei primi sintomi, sotto al quale aumenta l’incidenza di complicanze e danno severo a diversi organi tra cui polmoni, fegato e rene...”.
Il dosaggio di questo marcatore al momento della positività all’infezione o all’arrivo in pronto soccorso, attraverso un prelievo di sangue, permetterebbe di dividere i pazienti in base al rischio per introdurre interventi terapeutici tempestivi:
“…La Sfingosina-1-fosfato – aggiunge Laura Riboni, professore ordinario di biochimica dell’Università di Milano – è un biomodulatore chiave in molti processi cellulari vitali, tra cui lo sviluppo e l’integrità vascolare, il traffico linfocitario e i processi infiammatori. Quando i livelli circolanti del biomodulatore diminuiscono, s’instaura un danno vascolare e un’alterata risposta del sistema immunitario che determina un eccessivo e persistente stato infiammatorio. Il ripristino dei livelli fisiologici di Sfingosina-1-fosfato può rappresentare una strategia utile a ridurre il rischio di progressione infausta del quadro clinico in pazienti con Covid-19 e anche a indurre un’efficace risposta immunitaria dopo vaccinazione…”.
Un altro risvolto importante dello studio, chiosa Stefano Centanni, direttore del Dipartimento di Scienze della Salute e della UOC di Pneumologia dell’ASST Santi Paolo e Carlo, riguarda la “Sfingosina-1-fosfato come nuovo bersaglio terapeutico, sia in termini di ripristino dei normali livelli circolanti, sia nel potenziamento dei protocolli terapeutici in quei pazienti a più alto rischio, consentendo anche una migliore allocazione delle risorse sanitarie”.
La scoperta rappresenta un altro importante traguardo nella lotta contro la pandemia, in attesa che il vaccino sia disponibile e soprattutto “sicuro” per tutti. Già nello scorso mese di novembre alcuni scienziati italiani avevano identificato un biomarcatore in grado di prevedere il livello di gravità del virus che, come sappiamo, parte da dall’assenza di sintomi, a semplice influenza, a grave e spesso letale embolia polmonare e non solo.
Anche la molecola PTX3 secondo un rapporto pubblicato su “Nature Immunology” sembrerebbe funzionare come un indicatore di gravità della malattia nei pazienti affetti da Covid-19, anch’essa rilevabile con un test basato su un semplice esame del sangue.
Molte sono le scoperte italiane a tutela della salute, frutto degli studi di menti brillanti che hanno rappresentato e rappresentano una speranza di guarigione per migliaia di persone. Qualche mese fa è stata scoperta una molecola in grado di attivare la rigenerazione delle cellule muscolari fino all’età geriatrica.
Anche i questo caso l’Italia ha giocato un ruolo rilevante. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Cell Biology, è frutto della collaborazione tra l’università la Sapienza e laboratori europei e statunitensi. La ricerca ha aperto la strada a nuove opportunità terapeutiche anche in soggetti affetti da patologie neuromuscolari.
Eppure proprio la ricerca scientifica, specie nel Bel Paese, continua ad essere penalizzata e privata delle risorse necessarie. Come se non ne avessimo un bisogno vitale.
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