La tecnologia sempre più complessa e sofisticata provoca solitudine e isolamento. Ci si affida sempre di più alle relazioni virtuali e si passa meno tempo con i figli.
La solitudine dei genitori nell’era tecnologica. La tecnologia ha assunto, ormai, il ruolo di “pronto soccorso”. Per qualsiasi esigenza è pronta a soddisfare i nostri bisogni e aspettative, assurgendo a panacea di tutti gli inconvenienti quotidiani, con effetti, spesso, controversi. Come conferma il brillante pamphlet “Un’altra vita” di Amanda Hess, giornalista del New York Times, in cui vengono sviscerate le modalità per diventare mamma, in un contesto dominato e mediato dalla tecnologia.
L’autrice inizia il suo percorso verso la maternità quando un’app, una sorta di “occhio che tutto vede”, la informa, assiduamente, sul momento più idoneo di fertilità. Nel suo caso il test del Dna fetale ha testimoniato una rara malattia genetica del nascituro, la sindrome di Beckwitth-Wiedeman, caratterizzata da eccessivo accrescimento, ipoglicemia neonatale e rischio di sviluppare tumori del rene e fegato. Ed ecco che entrano in campo una serie di dispositivi pronta a soccorrerla.
C’è solo l’imbarazzo della scelta. Si va da un’app inserita nella culla che trasmette un grafico sulla qualità del sonno del bambino, ad un calzino per controllare battito cardiaco e saturazione, fino alla fascia per il torace che, grazie ad una telecamera, ne controlla il respiro. Tuttavia questi dispositivi non sono avvallati dalla comunità scientifica e sono utilizzati in gran parte da genitori con bambini in buona salute. La loro diffusione è spiegabile con l’eccessiva ansia dei genitori che si trovano catapultati in una situazione di estrema solitudine.
Una volta, i bambini venivano aiutati a crescere dal parentado allargato o dal quartiere, mentre ora, nel cosiddetto “villaggio globale dell’era digitale” ci si affida alle relazioni virtuali. Secondo l’autrice, però, la digitalizzazione dei rapporti ha prodotto uno squallido mercimonio dell’attività assistenziali. Nel mercantilismo selvaggio che avviluppa ogni momento della vita quotidiana dei cittadini, i dati posseduti dalle app vengono venduti ad aziende che offrono servizi a volte inutili, seducendone la domanda.

Basta digitare “Google” e, come per magia, appaiono una serie di indirizzi a cui rivolgersi per il proprio, specifico, problema. A questo processo si associano i social. Con la narrazione di gestanti, improvvisatesi esperte in materia, è tutto un profluvio di indicazioni e consigli. L’aspetto controverso continua con le rimostranze di vicini di casa senza figli, che al primo pianto, inondano la malcapitata mamma di messaggi anche duri con quelle app di condominio che sono tante diffuse.
Già per partorire ci si è trovati immersi nella solitudine più bieca, ora ci si mettono pure le lamentele dei vicini a produrre inadeguatezza! La perversione tecnologica ha, finanche, sconvolto l’intimità, fino alla prescrizione e programmazione di ogni aspetto della vita e alla deflagrazione dei rapporti capitalistici. In questo meccanismo di stritolamento, nel caso in questione, la tecnologia ha ridotto il tempo trascorso col bimbo, sostituendosi a quello affettivo coi suoi dati, trasmessi dalle app.
Si sta assistendo alla ludicizzazione di ogni aspetto della vita. Ossia all’uso di elementi propri del game design in contesti non ludici, come l’educazione, la maternità, il marketing, la salute, la formazione e la politica. Forse si sta assistendo ad una vera e propria trasformazione del concetto di “umano”. Dio come si sta cadendo in basso. Ma forse in alto non ci siamo mai stati!