LAVORATORI SFRUTTATI: DA ADESSO PIU’ DIRITTI PER I RIDERS?

Quella dei ciclofattorini resta una categoria priva di tutele e mantenuta nella precarietà, mentre le aziende cercano nuovi modi per sfuggire alle proprie responsabilità fiscali e amministrative

BOLOGNA – È stato di recente convertito in legge il decreto 101/2019, contenente, tra le altre cose, una serie di nuove tutele per i ciclofattorini, o riders. Il decreto costituisce un ulteriore avanzamento rispetto alle tutele precedentemente introdotte con la “Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali nel contesto urbano”, a Bologna, nel maggio 2018, e con il riconoscimento del rapporto di subordinazione tra azienda e rider, sancito con sentenza numero 26/2019, della Corte d’Appello di Torino. Del nuovo decreto legge e di quali siano ancora i nodi irrisolti abbiamo voluto parlare con Riccardo Mancuso, studente universitario, rider per Deliveroo e membro dell’esecutivo di Riders Union Bologna da due anni.

Entriamo subito nel merito parlando del decreto legge 101/2019, di recente convertito in legge. Cosa cambia per voi riders rispetto a prima?

Il decreto è sicuramente un passo avanti e introduce diversi elementi che prima erano estranei a questo settore, a cominciare dalla sicurezza, con l’introduzione dell’INAIL. Poi c’è la contribuzione per i lavoratori e tutte quelle tutele che noi consideriamo inderogabili. Tutto ciò prevedendo, però, un doppio binario: una parte di lavoratori, che hanno rapporti continuativi con l’azienda, avrà diritto alle tutele dei subordinati e, quindi, al salario riagganciato ai contratti collettivi, con tutta la pletora di diritti dei lavori di tipo subordinato; invece, i lavoratori che hanno rapporti occasionali con l’azienda, avranno diritto a alcune tutele minime, sulla scorta di quelle che sono state conquistate con la Carta dei diritti di Bologna.

Il nodo è quindi capire dove sia il discrimine tra rapporto continuativo e rapporto occasionale.

Esatto, è proprio così.

JustEat ha reagito alle novità introdotte dal decreto legge, con licenziamenti e riassunzioni a diverse condizioni contrattuali. Qual è il vantaggio che trae JustEat nel passare da un co.co.co. a una prestazione occasionale?

JustEat, passando al regime di occasionalità, rifugge da tutte quelle che sono le tutele connesse al lavoro di tipo subordinato. Un contratto di tipo co.co.co indica un rapporto continuativo dal punto di vista contrattuale. Però non è soltanto la tipologia di contratto che va a connaturare il rapporto di lavoro tra il fattorino e l’azienda. Questo era uno degli elementi più espliciti e JustEat ha deciso di rientrare nell’alveo dell’occasionalità. La vicenda di JustEat è l’esempio lampante di come le aziende si possono riorganizzare per intervenire su quelle che sono le mancanze del piano legislativo. Le aziende possono fare in diversi modi oltre a quello praticato da JustEat, per esempio tramite l’assunzione indiscriminata di centinaia di altri lavoratori in modo tale da creare una sorta di riserva, far lavorare meno quelli che già ci sono e tenere a bassissime ore quelli che vengono presi, così da poter avere gli elementi necessari per dire che è un tipo di lavoro occasionale.

Già dalla sentenza della Corte d’Appello di Torino è emerso come, nonostante il riconoscimento di un rapporto di subordinazione, si faccia fatica a livello legislativo a configurarvi come subordinati tout court. Secondo te come si può superare il problema definitorio?

Il problema è generale nel senso che è il nostro diritto del lavoro ad essere in ritardo. Però c’è da dire che il quadro giurisprudenziale è mutato molto negli ultimi anni. C’è stata una sentenza a Barcellona che è stata categorica nel riconoscere la subordinazione per tutti i lavoratori interni alle piattaforme digitali, e poi c’è stata un’altra sentenza, inaspettata, in Corte d’Appello a Parigi, che ha sostenuto più o meno la stessa cosa. Quella di Torino è quella un po’ più mite, perché, riprendendo il riferimento all’articolo due del Jobs Act, dice: “questi lavoratori non sono subordinati ma hanno dei diritti che possono essere assimilabili a quelli dei lavoratori subordinati”. Noi abbiamo portato avanti la mobilitazione per interrogare la politica, per avere un avanzamento normativo e per riempire quelle che erano le lacune lasciate dalla giurisprudenza. Poi ci sarebbe anche da sollecitare un intervento dell’Ispettorato del lavoro, che non è mai arrivato a Bologna; ci sarebbero da chiarificare anche tutte quelle situazioni sul caporalato digitale: a Bologna ci sono diversi casi di partite Iva con codici falsi, partite Iva con prestanome e varie pratiche illegali che bisognerebbe acclarare per mettere con le spalle al muro l’azienda.


Come sono riuscite le aziende a deregolamentare un settore che in qualche modo già esisteva ma che ha visto negli ultimi anni una rapida espansione, frutto di una crescente domanda per il genere di servizi che offrite?

Sicuramente si tratta di un settore dove c’è una fortissima speculazione di diversi gruppi dal potere economico importante, però è anche vero che resta un settore con un margine di profitto abbastanza risicato rispetto a quello che è il servizio. Le aziende si comportano in modo così discriminatorio e con un atteggiamento di sfruttamento nei confronti dei lavoratori perché una buona parte del loro guadagno risiede proprio nello sfruttamento della forza lavoro. Il costo del servizio copre sì una parte considerevole del profitto che hanno queste aziende, ma il profitto maggiore deriva dallo sfruttamento della forza lavoro e dalla speculazione. È vero che la domanda aumenta, però è anche vero che si tratta di servizi che dovrebbero essere considerati servizi alti: farsi portare il pasto a casa è una comodità, non una necessità. Ed è un servizio che non è certo nato oggi, ma che però adesso è diventato fenomeno di massa. L’inganno dell’azienda è l’utilizzo dell’intermediazione digitale per ottenere un guadagno sostanziale sullo sfruttamento della forza lavoro, deregolamentando completamente il settore. Loro utilizzano la mediazione digitale della piattaforma come pretesto per sostenere che il rapporto di lavoro cambia e che hanno diritto a introdurre contratti senza tutele. Questa è una falsità: l’intermediazione digitale non è un’intermediazione neutra. L’algoritmo della piattaforma è creato delle aziende, non decide in modo astratto senza prendere parte al processo, ma risponde alle esigenze dell’azienda. Se le esigenze dell’azienda sono di trarre profitto dallo sfruttamento dei lavoratori allora l’algoritmo risponderà a questa sollecitazione. E questo del resto succede puntualmente perché il lavoratore non ha possibilità di scegliere i turni e viene tenuto in uno stato di precarietà e insicurezza, perché non sa quante ore dovrà lavorare in giornata e non sa quanto guadagnerà.

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