Oggi si festeggia l’11 marzo, festa della donna. Domani, 12 marzo, si festeggerà ancora questa ricorrenza. Per non parlare del 13 marzo, altra festa della donna. Una festa che dura 365 giorni l’anno.
Milano – Nessun errore di battitura o refuso, l’8 marzo non ci dovrebbe essere nessuna festa della donna, benché ora sia stata rivisitata come Giornata internazionale della donna. Non è una provocazione, bensì un auspicio. Che diventi un lontano ricordo di quando le donne erano costrette a vivere una condizione di tangibile inferiorità rispetto agli uomini.
Una celebrazione di 24 ore a suon di mimose, sciabordii di auguri nei gruppi Whatsapp, copia-incolla di ridondanti aforismi su Facebook e via con i valzer. Degni di menzione anche i mariti /compagni, che nel corso dell’anno non osano regalare vegetali non edibili alle proprie consorti/compagne nemmeno vincendo un buono regalo da Viridea, salvo poi l’8 marzo… “Eh, hai visto che mi sono ricordato?” con fare tracotante, auto-pacca sulla spalla e mostrina d’onore per l’eroico gesto. Oppure boss aziendali che inondano con sorrisoni compiaciuti gli uffici di mimose l’8 marzo per poi tornare magari alla routine d’ufficio fatta di ameni epiteti e pacche sulle terga qua e là.
Non siamo tutti così, per carità. Ma ha senso celebrare il 50%, o forse di più, della popolazione mondiale l’8 marzo? Forse è solo un modo per ribadirne la subalternità nei confronti dell’altro 50%, confinandola a una celebrazione mordi e fuggi. Salvo poi tornare alla “normalità” dal 9 in avanti. Già, ma qual è la normalità? Insulti e minacce nel migliore dei casi, botte e violenza fisica, abusi sessuali per finire con l’abominevole femminicidio. Teatro prediletto di queste oscene pratiche? Le mura casalinghe, ovviamente. Nel domestico recinto ogni violenza viene silenziata, ogni abuso viene taciuto e ogni forma di ribellione violentemente repressa.
Assistiamo a partecipazioni oceaniche nelle città italiane con manifestazioni e gesti folkloristici per i diritti delle donne in Iran (5.000 km di distanza), ma magari non ci accorgiamo della nostra vicina di casa che subisce angherie e vessazioni un giorno sì e l’altro pure. Ignoriamo peraltro la situazione paritetica delle medesime nei confinanti Iraq, Turkmenistan e Pakistan, ma qui sconfiniamo in un’altra faccenda di puro imperium.
Qualche dato gentilmente fornito dall’Istat fa comprendere, a chi ancora ne fosse digiuno, la portata del fenomeno in Italia. l 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652mila) e il tentato stupro (746mila). Numeri che fanno paura, perché ci ritroviamo messi così?
Le case spesso per le donne si trasformano in veri e propri lager. E da un lager non è facile fuggire o denunciare. Gli orchi non lo consentono. Tuttavia, la banalizzazione è il sentiero prediletto: “Se non lo fanno si vede che a loro va bene così”. Questi sono i belati che si odono da Bolzano ad Agrigento. Troppa fatica indagare la psiche di una donna picchiata, laddove la denuncia di una persona che spesso si ama o si è amata, involutasi in feroce aguzzino, diventa impresa sisifea. Oppure altri mirabolanti esercizi pubblici, o sarebbe meglio dire pubici, d’intelletto in occasione di violenza sessuale: “Ma se una si veste così, se la cerca”. Frasi che mettono i brividi per quanto siano di ferino livello. È straordinariamente difficile per una donna vivere una situazione del genere e trovare forza e coraggio di denunciare.
È un modo per mettersi una coperta sugli occhi e ribaltare il problema. Ossia anziché concentrarsi su come nullificare l’aggressività e la violenza belluina dell’uomo, più facile esortare la donna a reagire e denunciare. Che è cosa corretta, beninteso, ma non è lì che dimora il problema. L’addizione da soffocare è la disponibilità verbale unita alla forza fisica. L’homo erectus, quando termina il suo vocabolario, mena. Quando non ha argomenti e pensieri da tradurre in dialogo, pesta. Ed è atto ancor più vile sapendo che 99 volte su 100 parte da una condizione fisica di superiorità nei confronti della donna.
Il clivage è senza dubbio culturale, spesso un mondo bellissimo e complesso come quello femminile viene ridotto a mera materia. A questo si riduce l’uomo, con la U minuscola. Quelli con la U maiuscola infatti sono soliti aprire le portiere delle auto alle donne, possibilmente non in faccia, versar loro da bere e schiudere varchi alle proprie compagne. Ma più semplicemente rispettarle e preservarne la bellezza. Invece spesso la donna diventa un oggetto di cui disporre a piacimento o su cui sfogare la propria frustrazione dopo una giornata storta, un bicchiere di troppo, una avversa minuzia imprevista, inevitabile nella vita di tutti i giorni. Salvo poi emendare ogni peccato con un fulgido mazzo di mimose l’8 marzo.