In una notte di tregenda un’intera famiglia veniva trucidata nella propria abitazione. I cadaveri, in stato di decomposizione, erano stati ammucchiati nella vasca da bagno. La mattanza, ad oggi, è rimasta impunita.
Napoli – Una piccola finestra incastonata fra le piastrelle chiare fa da cornice agli erbosi terrapieni che sovrastano numerose casupole popolari, di quelle fatiscenti ma affascinanti, colme di storia. Da quella finestra al quarto piano dello stabile n. 78 di via Caravaggio, si può vedere come il quartiere di Malagrotta stia mutando, come tutta Napoli stia cambiando l’abito. Quei terrapieni verdi di erba e fiori di campo ben presto si trasformeranno in asfalto e casermoni di cemento. Sono gli anni ‘70, il 1975 per l’esattezza, e da quella finestra la vista ha ancora qualcosa di bucolico, anche se da qualche giorno c’è qualcosa che disturba quella cartolina colorata. Un nugolo di mosche svolazza fra la cucina e il bagno. Sulla vasca il ronzio degli insetti si fa assordante. Sotto di essi uno spettacolo raccapricciante: i corpi putrefatti di un uomo, una donna e un cane, gli uni sopra gli altri, ammorbano l’aria. Il corpo senza vita di una ragazza, anche questo deteriorato dal tempo, giace in camera da letto coperto da un lenzuolo. Si tratta della famiglia Santangelo e qualcuno ha deciso di sterminarla.
La mattanza
Quella che in principio per Mario Zarrelli era semplice preoccupazione, diventa vero e proprio panico la mattina dell’8 novembre. Sono giorni che non ha notizie della zia, non la vede e non riesce a sentirla al telefono. Zarrelli si rivolge alla polizia e denuncia per l’appunto che sua zia, Gemma Santangelo, è di fatto irreperibile da parecchi giorni, convincendo gli agenti ad inviare una Volante in via Caravaggio, dove la donna risiede. Le finestre sono chiuse, il contatore della luce è staccato e la Lancia Fulvia del marito non è in garage. Il campanello suona incessantemente a vuoto, gli agenti decidono di chiamare i Vigli del Fuoco che, dopo aver rotto un vetro, entrano in una delle stanze dal balcone.

Davanti agli occhi dei poliziotti si presenta una vera e propria macelleria messicana. Il pavimento è rigato da spesse scie di sangue rappreso, scie che si dirigono verso il bagno. Le vittime da lì a poco rivenute, sono state colpite alla testa con un oggetto contundente, sgozzate e in seguito trascinate lungo l’appartamento. Anche il cane di famiglia è stato ucciso, soffocato, e in seguito gettato nella vasca da bagno con due dei suoi padroni, Domenico Santangelo, 54 anni, e la moglie Gemma Cenname di 50. Il corpo della figlia Angela, 19enne, giace sul letto della camera matrimoniale, sotto un lenzuolo e con la gola squarciata. I contanti e gli oggetti di valore sono spariti e l’assassino si è addirittura preoccupato di chiudere la porta d’ingresso a doppia mandata prima di dileguarsi. Sembra un omicidio impulsivo, forse un raptus improvviso, ma di chi?
Le indagini e il presunto colpevole
Una delle poche tracce lasciate dal killer, utile alle indagini, è un’impronta di scarpa taglia 42, che fa immediatamente supporre che l’omicida sia un uomo. Vengono trovate anche impronte digitali su alcune bottiglie di alcolici oltre a diversi mozziconi di sigaretta ma, non essendoci ancora la tecnologia forense dei nostri giorni, i reperti risultarono quasi inutili. A seguito delle prime indagini l’attenzione degli inquirenti si focalizzava su Domenico Zarrelli, fratello di Mario, il primo a chiamare la polizia, e nipote di Gemma, una delle vittime. Secondo l’accusa l’uomo si sarebbe vendicato per un prestito negato.

Inoltre a pesare ulteriormente sulla sua situazione probatoria, c’è una ferita da taglio alla mano e alcuni testimoni che la sera dell’omicidio riferivano di averlo visto al volante dell’auto dello zio Domenico, poi ritrovata in via Marina. Nel ‘76 Zarrelli veniva arrestato e condannato inizialmente all’ergastolo. Dopo cinque anni veniva prosciolto per insufficienza di prove. In seguito la Cassazione annullava la sentenza assolutoria e si rifaceva il processo ma nel 1975 l’imputato otteneva il verdetto definitivo che lo dichiarava innocente.
Grazie alle innovative tecniche d’investigazione nel 2014 sono state analizzate alcune tracce di Dna rinvenute sulla scena del delitto e custodite presso i depositi del tribunale di Napoli. Gli analisti avrebbero trovato un profilo genetico riconducibile a Domenico Zarrelli. Secondo quanto emerso dai rilievi della Scientifica di Roma e Napoli, incaricate del riesame dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, uno straccio da cucina insanguinato e alcuni mozziconi di sigaretta, rinvenuti all’epoca del delitto, conterrebbero materiale biologico riconducibile, geneticamente, all’unica persona processata per il crimine in questione: Domenico Zarrelli. Nonostante tutto l’uomo ha sempre affermato di non essersi mai sottoposto ad alcun prelievo genetico e, comunque sia, vige il principio “ne bis in idem” per cui non si può processare due volte una persona per lo stesso reato, ancorché assolta con sentenza definitiva. Nel 2015 il caso finiva in archivio e nel 2016 Domenico Zarreli sarà risarcito dallo Stato con 1 milione e 400 mila euro per l’ingiusta detenzione.
La mattanza è inevitabilmente destinata a restare impunita, nonostante l’assassino, o gli assassini, potrebbero essere ancora vivi e vegeti. E soprattutto liberi.