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Guerra agli scafisti

La guerra agli scafisti della Meloni è uno specchietto per le allodole

Mentre i vertici del business della migrazione restano comodi in Libia, la Meloni ripete il mantra della “guerra agli scafisti” per coprire le criticità della gestione dell’immigrazione. Ma le morti in mare non si fermano con i ritornelli della propaganda.

Roma – La tragedia di Cutro ha riaffermato una evidenza: non bastano dichiarazioni ad effetto o posizioni radicali per fermare l’immigrazione di massa. Il motivo della “guerra agli scafisti” è una capriola retorica attraverso cui il governo Meloni cerca di conciliare i “pietisti” cattolici con il suo elettorato più ostile ai migranti: ma che senso ha prenderla con la “bassa manovalanza” dell’immigrazione, quando i veri responsabili sono lontanissimi dal braccio dello Stato?

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Il delirante discorso in cui Giorgia promette di dare la caccia agli scafisti “per tutto il globo terracqueo

Abbiamo già in passato osservato come Cutro abbia costituito un nodo estremamente problematico per il governo Meloni. Questo ultimo parte con premesse nettamente ostili all’immigrazione illegale, ma si è trovato a vivere una tragedia umanitaria che ha lasciato ben pochi italiani indifferenti. Come conciliare le istanze dell’ampio elettorato cattolico, che piange i morti sul mare, con le esigenze dei sovranisti radicali che vorrebbero il pugno di ferro contro l’immigrazione?

La capriola retorica adottata da Meloni è quella della guerra agli scafisti. Si da la colpa ai trafficanti di essere umani per evitare di toccare i migranti in sé – anche se ovviamente sono proprio questi ultimi a essere indesiderati.

La vera struttura del business degli sbarchi

Il punto è che chi guida le barche non è quasi mai chi profitta dai viaggi della morte. Gli scafisti non sono che la bassa manovalanza del business migratorio: disperati a cui è stato insegnato a pilotare le bagnarole ma che spesso sono scelti tra i migranti stessi.

Il caso degli scafisti bambini è la prova più lampante: è accaduto più volte che a pilotare le barche fossero minorenni, addestrati in fretta e furia a compiere la traversata mediterranea. Questi, sulle coste del Belpaese, venivano arrestati e processati come scafisti veri e propri: un’assurdità, considerato che questi ragazzini non volevano fare altro che trarre in salvo i propri compagni di sventura. Altri “scafisti” sono colpevoli di avere toccato il timone durante un’emergenza. Il fatto che la legislazione italiana non riconosca una differenza così palese tra chi organizza i viaggi e chi si trova – per sorte o volontà – a guidare una nave è vergognoso.

I veri padroni del business sono lontanissimi dalle coste. Spesso si tratta di contrabbandieri, a volte affiliati in vere e proprie mafie, altre volte “passatori” improvvisati. Si tratta di una catena, lunga e disorganizzata, che termina con i trafficanti d’uomo veri e propri – spesso pescatori o abitanti delle zone locali. Comunicano con i social network, che rigurgitano di disperati che vedono nel viaggio in Europa l’unica salvezza: facile preda delle sirene dello scafismo.

La guerra agli scafisti: strategia o fumo negli occhi?

In seguito a Cutro, il governo Meloni si è trovato a dover gestire due accuse: la prima è di non avere fatto abbastanza per salvare i migranti, la seconda di non essere in grado di fermare gli sbarchi in aumento esponenziale. Diciamolo: non è colpa di Giorgia. Si tratta di un problema letteralmente senza soluzione: non bastano le prese di posizione per fermare le navi.

Tuttavia, è comunque fonte di imbarazzo per un governo che sulla lotta alla migrazione ha fondato la propria campagna elettorale. La soluzione della “caccia allo scafista” è tentativo di salvare capre e cavoli che sul piano retorico funziona: c’è sia il tema del contrasto all’immigrazione illegale, che il tentativo “umanitario” di prevenire le morti in mare arrestando chi, di fatto, li compie.

Ma di retorica, appunto, si tratta. Ci saranno sempre nuovi scafisti. L’idea di “dargli la caccia in tutto il globo terracqueo”, secondo la roboante affermazione della premier, non è priva di fascino, ma sembra difficile da applicare.

L’unica strategia è quella a lungo termine. Collaborare con gli Stati del Nordafrica, stabilizzare i loro governi e le loro economie, sviluppare alleanze a lungo termine. Terreno su cui – diciamolo – Giorgia non si sta muovendo male. Ma solo il tempo saprà dire.

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