Sulla scalinata della Corte di Cassazione, è prevista una cerimonia per la scopertura della effige in ricordo del funzionario ucciso.
Roma – Una targa in memoria di Donato Carretta. Domani 18 settembre, a ottant’anni dal tragico linciaggio del direttore del carcere di Regina Coeli, alle ore 15, a Roma, sulla scalinata della Cassazione, lato piazza dei Tribunali, è prevista una cerimonia per la scopertura della effige in ricordo del funzionario ucciso. L’evento vedrà la partecipazione, tra gli altri, della prima presidente della Cassazione e del ministro della giustizia, Carlo Nordio. Poi, nell’Aula Giallombardo della Suprema corte, si svolgerà una rievocazione dei fatti che condussero alla morte di Donato Carretta, con l’intervento di Walter Veltroni, autore del libro ‘La condanna’, e del professor Gabriele Ranzato, che ha scritto il testo ‘Il linciaggio di Carretta’.
Ma chi era Donato Carretta? La storia torna indietro al 18 settembre 1944. Siamo a Roma, poco dopo l’ingresso degli Alleati nella Città Eterna, nel momento più fosco della storia italiana del XX secolo. La popolazione è esacerbata dalle violenze del periodo di occupazione tedesca e soprattutto dall’episodio terribile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In quel giorno l’attenzione è catalizzata dal processo al questore di Roma Pietro Caruso, accusato di gravi responsabilità nel massacro. Davanti alla sede del processo, il “Palazzaccio”, la montagna di travertino e sculture ministeriali che si innalza sulla riva sinistra del Tevere, si è radunata una folla pericolosamente ansiosa di ottenere giustizia. L’udienza viene però rinviata, e a quel punto la folla, temendo si volesse proteggere l’imputato, rompe il cordone delle forze dell’ordine ed entra nel cortile del tribunale al grido di “Morte a Caruso!”.
La sua attenzione viene a questo punto attirata da un altro uomo, l’ex-direttore del carcere di Regina Coeli Donato Carretta, che era stato convocato come testimone a carico. Carretta è riconosciuto e vituperato da alcuni presenti, che lo accusano della morte dei loro congiunti: si distinguono in particolare una donna che aveva perso il marito e un’altra il cui figlio era stato torturato e ucciso dai tedeschi. La trappola mortale scatta.
Carretta comincia a essere schiaffeggiato e malmenato (un altro testimone d’eccezione riprende la scena, Luchino Visconti, incaricato dagli Alleati di filmare il processo). L’ex-direttore riesce a scappare e tenta di nascondersi ma viene scovato. Si salva a stento per l’intervento di due ufficiali alleati e dei carabinieri, che più volte cercano di farlo allontanare in auto. Tutto è inutile, la massa riesce a riprenderlo e continua il pestaggio.
A quel punto lo stendono sui binari di un tram per farlo lacerare dal convoglio, ma il conducente del mezzo si oppone e si salva a sua volta dal linciaggio esibendo la tessera del P.C.I. Frena e la mattanza non riesce. Carretta, ormai insanguinato e tramortito, viene allora gettato nel Tevere, ma l’acqua rianima l’uomo, che cerca disperatamente di salvarsi a nuoto; senonché dei bagnanti, che stavano prendendo il sole sulla riva del fiume, rispondono prontamente alle grida di morte della folla e a bordo di due scialuppe lo finiscono colpendolo con i remi. L’uomo annega e il cadavere viene poi pescato dalla folla, trascinato al carcere di cui era stato direttore e appeso nudo a testa in giù alla grata di una finestra della facciata. Alcuni responsabili del massacro vengono identificati e processati, ma ricevono delle pene esigue.