Nel Paese nordico il “modello Hjalli” educa i bambini fin dall’infanzia a superare gli stereotipi di genere. In Italia, invece, domina ancora la retorica e poco cambia nei fatti.
La parità di genere a scuola in Islanda si insegna scambiandosi i modi di giocare! L’educazione primaria è una parte fondamentale dello sviluppo di un bambino. È il primo passo verso l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze che serviranno per tutta la vita. Aiuta a sviluppare le capacità cognitive, sociali, emotive e fisiche. Così come i solchi in agricoltura servono per la semina, l’irrigazione e la manutenzione del terreno, l’educazione primaria serve per la formazione e lo sviluppo dei cittadini di domani. I modelli culturali di riferimento giocano un ruolo rilevante in questo processo.

Per quanto riguarda l’educazione all’uguaglianza di genere, l’Islanda ha mostrato di essere all’avanguardia rispetto agli altri Paesi Europei. Il suo modello scolastico non si ferma alle lodevoli enunciazioni di principio, ma opera praticamente sui processi da cui nasce la disuguaglianza di genere sin dalla più tenera età. E’ il cosiddetto “modello Hjalli”, in vigore in Islanda dal 1989, un approccio educativo per l’educazione della prima infanzia che promuove l’uguaglianza di genere attraverso un metodo strutturato ma non convenzionale. Cerca di contrastare i ruoli di genere tradizionali creando ambienti di apprendimento che consentono ai bambini di esplorare una gamma più ampia di comportamenti e competenze rispetto a quelli tipicamente incoraggiati dalla società.

Poiché i paradigmi culturali influiscono sulle differenze di genere sin dalla nascita, il “modello Hjalli” interviene per fare una sorta di bilanciamento. Ad esempio, le bambine sono incoraggiate a essere più assertive, avventurose e indipendenti, i bambini più empatici, gentili e collaborativi. Il modello ha provocato all’inizio forti resistenze, ma in seguito ha trovato largo seguito nel sistema educativo e nell’opinione pubblica.
Su questo versante l’Italia continua a stare in retroguardia e si distingue per immobilismo e retorica. Ossia, se ne discute tanto e in tutte le salse, ma poi tutto resta così com’è. Vengono approvati slogan, campagne pubblicitarie e protocolli ministeriali giusto per darsi un tono, ma allo stato dei fatti non si nota alcun cambiamento. Anzi, quando pare che qualcosa possa cambiare ecco spuntare gli “eserciti” per la difesa della famiglia, a cui si aggiunge immediatamente Dio e Patria, un trinomio famoso più dei “3 moschettieri”. Se si fa un giro negli asili e scuole materne italiani, i bambini sono incapsulati nei loro ruoli sessuali. Le bimbe devono manifestare dolcezza e compostezza, i bimbi forza e sfrontatezza.

I giochi sono ancora nella fase di storie le cui protagoniste sono principesse da salvare e cavalieri senza macchia e senza paura. Anche a quest’età vengono riproposti i tradizionali ruoli familiari, calcio e bambole. Il primo come simbolo del lavoro produttivo dei bambini e le seconde del lavoro di cura spettante alle bambine. E pensare che in Islanda i bambini vengono educati a giocare con le bambole e le bambine a calcio! Nel Belpaese, invece, come si fa, se nulla si muove, a non restare impigliati nella rete dei pregiudizi? Ci si dimentica, facilmente, che la disoccupazione femminile, la disparità economica, la cultura della prevaricazione, tutti fattori che poi si manifestano col loro volto peggiore in età adulta, trovano il loro humus fertile proprio nella scuola primaria. Sarebbe ora di intervenire seriamente, altrimenti non se ne esce!