Le piante organiche nazionali necessitano di circa 4500 medici e 10 mila infermieri. Turni massacranti e rischi per i pazienti.
Roma – I pronto soccorso ridotti a carri bestiame. Nelle ultime settimane sono balzati all’onore della cronaca (si fa per dire) i pronto soccorso (ps) “presi d’assalto” o “assediati”, tanto per utilizzare una terminologia che i mass-media hanno profuso a iosa. E’ bastato l’arrivo della stagione invernale coi picchi di patologie respiratorie a causa del Covid, dell’influenza stagionale e di altri virus che si infilano dappertutto, a far crollare il castello di sabbia che è, ormai, diventata, la sanità italiana. Ogni anno crescono le stesse criticità, a dimostrazione che non si è fatto nulla per arginarle, anzi confermano il processo di privatizzazione della salute. I fattori che rendono precario il sistema nazionale sanitario li conosciamo a menadito: mancanza di personale, stipendi bassi, inefficienza galoppante, attese interminabili per visite ed esami.
La Società italiana medici di emergenza (Simeu) ha diffuso un comunicato secondo cui in diverse regioni sono stati attivati i piani contro il sovraffollamento da parte delle aziende sanitarie. L’idea mira a rintracciare posti letto, dimenticando che, di fatto, sono insufficienti in ogni reparto. Si rischia di sottrarli ad altri settori per spostarli nei ps, facendo “ammuina”, che nel dialetto partenopeo significa confusione senza produrre alcun risultato. I numeri sono eclatanti. Da gennaio, i pazienti in attesa nei ps son stati 500 in Piemonte, 1100 nel Lazio dove la situazione si è fatta ancora più grave a causa dell’i dell’incendio dell’ospedale di Tivoli dell’8 dicembre scorso, in Lombardia 300 e così via. Il caos che si registra ogni inverno non è frutto del destino cinico e baro, ma di precise responsabilità politiche, le cui promesse sono come quelle del marinaio, puntualmente disattese.
La chiamano emergenza, ma se un fenomeno manifesta la sua prevedibilità, si trasforma in ordinarietà. La pressione sui pronto soccorso si ripete ogni inverno: la politica fa promesse da marinaio, puntualmente disattese. La legge di bilancio ha previsto per il Fondo sanitario 134,1 miliardi quest’anno, 135,39 per l’anno successivo e 136 per il 2026. Se la matematica non è un’opinione, sembrerebbero più risorse per la sanità. Ma qui casca l’asino e spunta l’inghippo. La Fondazione GIMBE (ente indipendente senza scopo di lucro, sorto per migliorare la salute dei cittadini e sostenere il servizio sanitario pubblico, equo ed universalistico) sostiene che la grossa quota dei finanziamenti saranno per il rinnovo contrattuale dei dipendenti sanitari, quindi, resteranno solo le briciole per investimenti strutturali. La carenza di personale è la criticità più urgente. Ancora una volta i numeri non mentano. Le piante organiche sul territorio nazionale necessitano di circa 4500 medici e 10 mila infermieri. Coloro che lavorano sono soggetti a turni massacranti, con gravi responsabilità e col rischio di mettere a repentaglio la salute dei pazienti.
Inoltre, per fronteggiare la situazione, si ricorre, spesso alle esternalizzazioni che pesano sul bilancio aziendale e creano conflittualità nei gruppi di lavoro. Infatti, sono numerosi i professionisti che percepiscono stipendi diversi poiché inquadrati in cooperative o a gettone. E’ come il cane che si morde la coda. Se non si gratifica la prestazione degli strutturati, si ricorrerà sempre a personale esterno, per coprire il buco creatosi. Il Covid non ha insegnato proprio nulla. Se si sono limitati i danni è stato grazie al servizio sanitario nazionale pubblico e all’abnegazione degli operatori. Ed invece di intensificarlo e di sviluppare la medicina territoriale, si smantella l’uno e l’altra. Un antico motto popolare recita: “Chi va per questi mari, questi pesci prende”. Ovvero, si è deciso di navigare in questo tipo di politica ed i pesci puzzano dalla testa!