Il dramma dei detenuti psichiatrici: il 12% ha una diagnosi grave ma è in carcere

Il caso di Cagliari dove un ragazzo, scarcerato dal giudice, deve restare dietro le sbarre a Uta perché non ci sono posti in comunità.

Cagliari – Nel carcere di Uta “da diversi mesi un ragazzo molto giovane con disagio psichiatrico e con un ordine di scarcerazione da parte del tribunale è costretto a rimanere in carcere perché mancano le strutture e perché i servizi territoriali non riescono a trovare una collocazione”. Lo segnala la Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà personale in Sardegna, Irene Testa.

“Siamo all’assurdo se neanche le disposizioni dei giudici vengono prese in considerazione a causa delle emergenze e delle carenze in cui versano i penitenziari dell’isola: un ragazzo che potrebbe essere ad alto rischio suicidario è totalmente incompatibile”, evidenzia Testa. “Si trovi una struttura perché il ragazzo deve essere curato con urgenza e fuori dal carcere. Per quanto riguarda le comunità, se non ci sono posti, le
istituzioni competenti si adoperino per crearli”. 

Quello del ragazzo nel carcere cagliaritano non è un caso isolato, ma riflette un problema sistemico che riguarda la mancanza di posti nelle comunità terapeutiche e la carenza di servizi territoriali di supporto psichiatrico. In carcere la presenza di un diffuso disagio psichico rimane una delle problematiche più spesso segnalata all’Osservatorio di Antigone: il 12% delle persone detenute (quasi 6.000 persone) ha una diagnosi psichiatrica grave (l’anno scorso era il 10%).

Se agli operatori il problema appare chiarissimo, la reazione diffusa del decisore politico – sottolinea Antigone – è quella di vedere la causa principale di questo diffuso disagio la chiusura degli Ospedali Psichiatrici giudiziari, che hanno smesso di esistere per legge nel 2014 e per davvero nel 2017. Gli Opg erano infatti l’ “istituzione di scarico” a cui inviare le persone detenute con disagio psichico di più difficile gestione.  A partire dalle l. 9/2012 e, poi, definitivamente, con la legge 81/2014 per le persone con disagio psichico che già si trovano in carcere (i “rei-folli”, come li definisce, ancora oggi, il gergo penalistico) devono essere trovati gli strumenti di cura esclusivamente all’interno del sistema penitenziario. 

Oggi dunque, per la persona detenuta con disagio psichico dichiarata capace di intendere e volere esistono due principali soluzioni. Una è fuori dal carcere, qualora la patologia psichica lo renda “incompatibile” con l’ambiente carcerario. E’ questa una strada percorribile, da quando nel 2019 è intervenuta la Corte Costituzionale (sent. n. 99/2019). Investita della questione dalla Corte di Cassazione (Cassazione Penale, Sez. I, Ordinanza n. 13382, 22 marzo 2018) sulla compatibilità costituzionale della differenza tra grave patologia fisica e psichica. L’altra strada, che è anche la più frequente – spiega Antigone – è che la patologia psichica venga “trattata” dentro al carcere. “Ed è qui che il carcere dimostra tutta la sua inadeguatezza di spazi, professionalità e risorse”.

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