Il caso Pandetta: il volto (dis)umano della giustizia

Quando il rigore della legge si scontra con le condizioni di salute e l’età avanzata: la battaglia legale per la dignità umana nel sistema penitenziario.

Catania – Il caso di Salvatore Antonio Pandetta, 71 anni, detenuto presso la Casa Circondariale di Caltagirone, solleva interrogativi profondi sul sistema penitenziario italiano e sulla sua capacità di conciliare giustizia e umanità. La vicenda, emersa attraverso un’istanza legale per la concessione della detenzione domiciliare, rappresenta uno spaccato emblematico delle contraddizioni che attraversano il nostro sistema giudiziario.

Una condanna controversa

Pandetta sconta una pena di 3 anni e 8 mesi di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Tuttavia, secondo la difesa, rappresentata dall’avvocato Giuseppe Lipera, la realtà dei fatti sarebbe ben diversa da quella dipinta dalle sentenze di merito. L’uomo avrebbe infatti svolto semplicemente l’attività di “tassista abusivo” nella città di Catania, accompagnando occasionalmente cittadini extracomunitari da un punto all’altro della città.

L’avvocato Giuseppe Lipera

La sproporzione tra la condotta effettivamente tenuta e l’accusa mossa emerge chiaramente dalle parole dell’avvocato Lipera: “L’unica condotta che gli si poteva contestare era quella di aver fatto il tassista abusivo, cosa che però non c’entra niente con il favorire l’immigrazione clandestina”.

Il deterioramento delle condizioni di salute

Dal momento dell’ingresso in carcere, avvenuto il 24 febbraio 2025 dopo essere stato prelevato dall’Ospedale Garibaldi, le condizioni di salute di Pandetta hanno subito un progressivo e drammatico peggioramento. Il quadro clinico descritto nell’istanza legale è allarmante: perdita di peso superiore ai 25 chilogrammi, svenimenti frequenti, vuoti di memoria, difficoltà motorie, problemi cardiologici, diabete e disturbi alla prostata.

Il grave problema dei detenuti ammalati e delle difficoltà nelle cure

L’età avanzata del detenuto, unita a queste gravi problematiche sanitarie, configura una situazione in cui la detenzione in carcere appare non solo inadeguata dal punto di vista umano ma potenzialmente dannosa per la salute stessa dell’individuo. La drastica perdita di peso, che ha portato Pandetta da una taglia 54 a una 44, è solo uno degli indicatori più visibili di un deterioramento generale che richiede attenzione medica specializzata e continuativa.

Il dilemma etico della detenzione

La domanda posta dall’avvocato Lipera “Perché questo poveretto, di oltre 71 anni, deve restare a morire in carcere?” – va al cuore di un dilemma etico fondamentale. Il sistema penitenziario deve certamente assicurare l’espiazione della pena ma deve anche garantire che questa non si trasformi in una condanna a morte per malattia o abbandono sanitario.

L’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In casi come quello di Pandetta, dove l’età avanzata e le gravi condizioni di salute rendono la detenzione in carcere una forma di sofferenza sproporzionata, è lecito interrogarsi se non si stia violando questo principio costituzionale.

Le alternative possibili

La detenzione domiciliare rappresenta, in situazioni come questa, uno strumento giuridico che può conciliare le esigenze di giustizia con quelle di umanità. Consentire a un settantunenne gravemente malato di scontare la propria pena in un ambiente familiare, dove può ricevere le cure necessarie e mantenere una dignità umana, non significa negare la giustizia ma applicarla con saggezza e compassione.

Le alternative previste dalla legge

Il sistema penitenziario italiano prevede infatti la possibilità di concedere misure alternative alla detenzione proprio per casi in cui le condizioni del detenuto rendano la permanenza in carcere particolarmente gravosa o inadeguata. La sfida sta nel valutare ogni singolo caso con l’attenzione che merita, bilanciando le diverse esigenze in gioco.

La vera misura della civiltà di un Paese si manifesta anche nel modo in cui tratta i più deboli, compresi coloro che hanno commesso reati ma si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità.

La richiesta di detenzione domiciliare per Salvatore Antonio Pandetta, avanzata dall’avvocato Giuseppe Lipera, non è solo una questione legale ma un test per verificare se il nostro sistema giudiziario sia in grado di adattarsi alle specificità del caso umano, mantenendo fermi i principi di giustizia ma applicandoli con quella flessibilità che la dignità umana richiede.

In attesa della decisione delle autorità competenti, resta aperta la domanda fondamentale: come può una società che si definisce civile permettere che la giustizia si trasformi in una forma di crudeltà involontaria verso i più fragili?

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email
Stampa