La riforma della prescrizione è poco rilevante, bisogna incidere sulle cause dei fenomeni e non solo sui loro effetti
In questi giorni si è acceso il dibattito sulla giustizia penale e sulla legge in particolare che sospende il corso della prescrizione dopo la pronuncia di primo grado, in vigore il 1° gennaio 2020.
Le Camere Penali hanno rinnovato le loro proteste proclamando uno sciopero di cinque giorni e hanno dibattuto il problema in un congresso straordinario dal titolo “Il processo senza prescrizione”. Sulla stessa linea si sono poste le Istituzioni forensi poiché – si dice – con la disposizione in esame il cittadino finirebbe per essere imputato per un tempo illimitato, a vita, date le lungaggini dei processi.
Sostiene per contro il Governo (la norma è stata approvata la scorsa legislatura) che la misura è necessaria poiché i crimini vanno puniti e non è possibile concedere di fatto l’immunità nel corso del processo quando la prescrizione maturi dopo un primo grado di giudizio e il compimento di tutte le attività necessarie per la conclusione della procedura.
Sono punti di vista opposti e inconciliabili solo se non si mette ordine sui principi, fissando alcuni punti condivisibili da tutti.
Il primo punto è che i reati vanno certamente puniti, ma devono anche essere rispettati i termini stabiliti dalla legge. Allo stato attuale i tempi dei processi sono infiniti e contrari alla nostra Costituzione (art. 111) e alla Convenzione dei diritti umani (art. 6) che impongono processi in termini ragionevoli: una giustizia lontana nel tempo è sostanzialmente una giustizia negata.
Un secondo punto, ormai acquisito nella coscienza collettiva, è che la prescrizione è un istituto necessario per dare certezza ai rapporti giuridici, poiché sarebbe insulso che taluno potesse reclamare diritti patrimoniali o venisse evocato in giudizio per ipotizzati crimini molto risalenti nel tempo.
In materia civile la prescrizione è di dieci anni (in taluni casi cinque), mentre in materia penale i termini sono variamente disciplinati in dipendenza della gravità dei reati e della necessità delle indagini.
Ora, il diritto di un cittadino non può essere pregiudicato dal tempo occorrente alla giurisdizione dello Stato per pronunciare in merito, e ciò vale sia in materia civile che in materia penale. E se si oppone che è primario interesse che i delitti vengano puniti e lo Stato possa rendere giustizia per tutto il tempo occorrente fino al passaggio in giudicato delle relative sentenze, si deve anche dire che tutto ciò è plausibile se i tempi dei processi sono ragionevoli e certi, e non indefiniti come nella situazione attuale.
Per di più, uno studio Eurispes proprio di questi giorni (su un campione significativo di processi) ha fatto presente che le pronunce di estinzione del reato nel corso del processo sono di circa il 26% e, di questa percentuale, solo il 42% è riferibile alla prescrizione (che dunque interviene sul 10% circa del totale dei processi), mentre altre sono le disfunzioni che impediscono la conclusione del giudizio e la ipotizzata eventuale condanna.
Ancora una volta, dunque, si deve avere avanti a sé il quadro complessivo del sistema, partendo dal fatto che il tempo attuale per rendere giustizia è intollerabile, in materia civile e in materia penale, e il tempo è anche strettamente collegato all’enorme numero di processi pendenti: le riduzioni dei tempi e dei numeri sono necessarie e strettamente connesse.
Per operare in questa direzione la norma sulla prescrizione è poco rilevante e ancora una volta il giudizio complessivo conferma che le modifiche dei singoli istituti possono essere accettate, come nel caso in esame, se al contempo si interviene sulla intera procedura e non con singoli parziali ritocchi.
Insomma, fino a quando si viene a incidere soltanto sugli effetti dei fenomeni, e non sulle cause, non vi è speranza di avere giustizia. Occorre dunque partire da capo: educare alla legalità e trasformare i termini processuali oggi esistenti, gli anni in mesi, e i mesi in settimane, come già avviene in alcune normative europee.
Questo è l’approdo che dobbiamo raccomandare, e a cui dobbiamo pervenire, ed è anche il punto per capire quanta distanza ancora dobbiamo percorrere per avere giustizia.
Remo Danovi
già Presidente Consiglio nazionale forense e Ordine degli avvocati di Milano