L’ex presidente di Alleanza Nazionale racconta su Il Foglio i motivi che spinsero il partito ad allontanare il deputato ora sospeso da Fdi per colpa della sua pistola portata al veglione di Capodanno di Rosazza. “Capimmo che era un balengo e lo accompagnammo alla porta, via, andare”, dice Fini. E alla domanda su una nuova Fiuggi per Giorgia Meloni replica: “Non spetta a me dirlo, di sicuro servono energie nuove stando accorti alle persone”.
Roma – Il caso Pozzolo continua a tenere banco e ad animare la querelle politica dalla notte di Capodanno, quando il deputato di Fdi è finito nei guai per il colpo partito dalla sua pistola a un veglione a Rosazza. Ma c’è una voce che irrompe più delle altre nel dibattito delle ultime ore e del ‘tutti contro Pozzolo’. È quella di Gianfranco Fini, ex presidente di An, già presidente della Camera, vicepremier e ministro degli Affari Esteri nel II e III governo Berlusconi. Su Emanuele Pozzolo, per restare in tema, spara una verità a bruciapelo sulle pagine de Il Foglio.
“Quel tizio, quando ero presidente di An, lo allontanammo, senza nemmeno espellerlo, dalla federazione di Vercelli – tuona Fini – perché era un violento estremista verbale. Il suo caso non finì sulla mia scrivania, ma se ne occupò Donato Lamorte, capo della mia segreteria politica. Capimmo che era un balengo, come si dice in Piemonte, e lo accompagnammo alla porta: via, andare”.
Tira già una brutta aria per il deputato attualmente sospeso da Fratelli d’Italia per quel colpo calibro 22 sparato chissà come dalla sua pistola al veglione di San Silvestro, invitato dal collega di partito Andrea Delmastro e finito nella gamba dell’elettricista di Candelo, genero del capo della scorta assegnata al sottosegretario.
Ma le parole di Fini che non le ha mai mandate a dire – e figuriamoci ora – sono da elogio funebre. Una cosa è certa, di casi Pozzolo nell’arco della sua lunga esperienza politica Fini ne ha visti passare. “Non tanti”, confessa l’ex presidente di Alleanza Nazionale, “perché tutto un armamentario nostalgico si staccò prima, non ci seguì. Ricordo i miei amici che mi davano del traditore. Altri tempi, che ricordi. Ma all’epoca avevamo la presunzione di uscire dalla casa del padre senza farne mai più ritorno”.
Adesso Alleanza Nazionale non esiste più, ma la figura di Gianfranco Fini aleggia nella scena politica e continua – quando irrompe in vicende come questa – a essere grillo parlante quando ci vuole. E allora quando Il Foglio lo mette di fronte alla domanda delle domande sulla classe dirigente mediocre che circonda Giorgia Meloni e non solo, il padre della Destra italiana risponde serafico e pungente:
“C’è sempre quel vecchio proverbio dell’albero che quando cade fa più rumore della foresta che cresce. Tra il goliardico e l’approssimativo i casi sono pochi. I parlamentari di Meloni sono circa 150: finora quelli, diciamo, irregolari saranno cinque o sei”.
A lui che fu protagonista della svolta di Fiuggi, emblema di quella scelta operata dal Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale di abbandonare i riferimenti ideologici al fascismo per qualificarsi come forza politica legittimata a governare, non si poteva non chiedere se Giorgia Meloni si trovi di fronte a una nuova Fiuggi.
“La mia svolta – ricorda – nacque dalla volontà di ridefinire i valori culturali della destra, ma anche per disporre della collaborazione di quegli elettori che a partire dalle comunali di Roma, nel ‘93, ci segnalarono l’inizio di un nuovo mondo: la Dc si era sciolta. Meloni, invece, è già arrivata al 30 per cento. Ora si tratta di rendere questo voto non solo un elemento di forza nei confronti della sinistra, ma di disporre della collaborazione della cosiddetta società civile. Ma con attenzione”.
Una nuova Fiuggi, dunque, per Meloni? “Non spetta a me dirlo. Di sicuro vanno aperte le porte – sottolinea Fini -, servono energie nuove stando accorti alle persone, verificandone gli intendimenti politici. Tuttavia certi processi sono irreversibili. Il brand è lei e le europee lo confermeranno. Il che non vuole dire che non debba migliorare la sua classe dirigente, ma Giorgia non ha fretta né bisogno di strappi repentini. Deve essere più liberale, questo sì, a partire dai diritti, perché se rappresenti il 30 per cento degli elettori devi essere più liberale e devi capire che la scienza è sempre più avanti della politica: va più veloce. Così come la coscienza del paese che spesso distacca la politica, sorpassandola”.