Scomparso nel 2011, il suo caso riapre le ferite della storica faida tra clan e il mistero delle vittime di lupara bianca.
Monte Sant’Angelo – La mattina del 24 giugno 2011, Francesco Libergolis uscì di casa, come ogni mattina. Era un venerdì come tanti altri nel caldo torrido dell’estate pugliese. A 41 anni, l’allevatore di Monte Sant’Angelo aveva una routine consolidata: i suoi animali, i suoi pascoli, una vita apparentemente normale in una terra dove la normalità è spesso un lusso che non tutti si possono permettere. Quella sera, però, Francesco non tornò mai a casa. E da allora, del quarantunenne non si è saputo più nulla.
La sua storia è una di quelle che il Gargano custodisce gelosamente, come un segreto che brucia ma non può essere raccontato. È la storia di un uomo che portava sulle spalle il peso di un cognome troppo ingombrante, in una terra dove i cognomi possono essere benedizioni o condanne, spesso entrambe le cose insieme.
Francesco Libergolis non era un allevatore qualunque. Era il nipote di Ciccillo e Pasquale Libergolis, due nomi che a Monte Sant’Angelo e in tutto il Gargano risuonano ancora oggi come echi di un passato violento e sanguinoso. I due fratelli erano stati uccisi nella faida del Gargano, la sanguinosa rivalità tra le famiglie di allevatori di Monte Sant’Angelo, una guerra che per decenni ha insanguinato una delle zone più belle d’Italia, trasformando pascoli e uliveti in campi di battaglia.

Ma Francesco era diverso. Gli inquirenti si erano affrettati a precisare che non era mai stato coinvolto nella guerra tra i clan e anche in passato non aveva mai avuto problemi con la giustizia. Era quello che in questi luoghi chiamano “uno pulito”, un uomo che aveva scelto di vivere onestamente, lontano dalle logiche criminali che avevano devastato la sua famiglia e il suo territorio.
Eppure, in una terra dove le vendette si tramandano di padre in figlio come un’eredità maledetta, essere “puliti” non basta sempre a mettersi in salvo. A volte, il cognome che porti è sufficiente a condannarti, anche se non hai mai sparato un colpo, anche se hai sempre scelto la strada giusta.
L’ultimo giorno
Ricostruire le ultime ore di Francesco Libergolis è come cercare di ricomporre un puzzle di cui mancano troppi pezzi. Quello che sappiamo è che quel 24 giugno del 2011 uscì di casa per le sue consuete attività. Era un allevatore, aveva i suoi animali da accudire, i suoi affari da sbrigare. Una giornata che doveva essere uguale a tante altre.
Ma qualcosa andò storto. Qualcosa che forse Francesco aveva previsto, o forse no. Qualcosa che lo portò a non fare mai più ritorno dalla sua famiglia, lasciando dietro di sé solo domande senza risposta e un vuoto che col tempo si è trasformato in angoscia.
La sua auto, una Fiat Punto, fu ritrovata giorni dopo in località Selvaggio, in una zona fittamente boscosa nei pressi di Vieste. Era lì, abbandonata, come se qualcuno l’avesse lasciata apposta perché fosse trovata. O forse era solo l’ultimo indizio di una storia che si era interrotta bruscamente, senza un finale.
Le indagini a vuoto
Le indagini sono ripartite dal posto in cui è stata ritrovata la Fiat Punto dell’allevatore. L’ipotesi è che si sia trattato di un nuovo caso di lupara bianca. Queste le parole degli investigatori all’epoca, cariche di una rassegnazione che conosce bene chi lavora in quelle terre.

Lupara bianca. Un’espressione che in Puglia, e soprattutto nel Gargano, risuona con la frequenza di un rintocco funebre. Significa sparire nel nulla, essere uccisi e fatti scomparire senza lasciare tracce, senza un corpo da piangere, senza una tomba su cui portare i fiori. È il destino di troppi uomini e donne di quella terra, inghiottiti dall’ombra della criminalità organizzata e restituiti solo al dolore eterno delle loro famiglie.
Gli esami della scientifica, tanto attesi, non portarono a risultati definitivi. La macchina di Francesco aveva raccontato poco o nulla di quello che era successo al suo proprietario. Era pulita, troppo pulita forse, come se qualcuno avesse fatto attenzione a non lasciare tracce compromettenti.
Una terra segnata dalla violenza
Per capire la storia di Francesco Libergolis bisogna conoscere la storia del Gargano, quella vera, quella che non si trova nelle guide turistiche ma è scritta col sangue sui muri delle case, nelle cronache dei giornali, nella memoria collettiva di un popolo che ha imparato a convivere con la paura.
La faida del Gargano ha segnato profondamente questi territori, trasformando quello che dovrebbe essere un paradiso naturale in un campo di battaglia tra clan rivali. I Libergolis erano una delle famiglie protagoniste di questa guerra, insieme ai Romito, ai Piscopo, ai Miucci. Nomi che per decenni hanno riempito le cronache nere, protagonisti di una spirale di violenza che sembrava non avere mai fine.
Francesco Libergolis, detto “Ciccillo u Calcarule”, lo zio di Francesco, era stato ucciso nell’ottobre del 2009, freddato da alcuni colpi di pistola in pieno volto. Un agguato che aveva riacceso la guerra tra i clan, alimentando quella spirale di vendette che sembrava non conoscere sosta.
In questo contesto, essere un Libergolis significava automaticamente essere un bersaglio, anche se si era scelto di vivere onestamente. Perché in una faida, le regole della giustizia normale non valgono. Vale solo la legge del sangue, quella che dice che i figli pagano per i padri, i nipoti per gli zii, in un circolo vizioso che si perpetua di generazione in generazione.
La famiglia spezzata
Dietro ogni scomparsa c’è una famiglia che non smette mai di sperare e di soffrire. La famiglia di Francesco Libergolis ha vissuto e continua a vivere il dramma di non sapere cosa sia successo al loro caro. Non c’è un corpo da piangere, non c’è una tomba su cui portare i fiori, non c’è nemmeno la certezza della morte.
È un limbo terribile quello in cui vivono i parenti delle vittime di lupara bianca. Ogni giorno si svegliano con la speranza che forse, chissà, quella porta si aprirà e il loro caro tornerà a casa. Ma ogni sera vanno a dormire con la consapevolezza che un altro giorno è passato senza notizie, senza risposte, senza pace.
Gli anni passano ma il dolore resta uguale. Anzi, forse si acutizza, perché col tempo la speranza si trasforma in disperazione, le domande si moltiplicano e il vuoto lasciato dalla scomparsa diventa sempre più grande.
Gli echi del presente
La storia di Francesco Libergolis non è un caso isolato nel panorama criminale garganico. L’allevatore viene ricordato ancora oggi come uno dei tanti casi irrisolti che costellano la storia recente di queste terre.
Il Gargano continua a restituire, di tanto in tanto, i resti delle sue vittime. I resti vengono inviati al RIS per gli accertamenti tecnici, nella speranza di dare finalmente un nome e una storia a quei frammenti di ossa ritrovati in gravine remote o in campagne abbandonate.

Ma per Francesco Libergolis, questo momento non è ancora arrivato. La terra del Gargano custodisce ancora il suo segreto e la sua famiglia continua ad aspettare risposte che forse non arriveranno mai.
La scomparsa di Francesco Libergolis si inserisce in un contesto più ampio, quello di una guerra tra clan che ha devastato il Gargano per decenni. Il clan Libergolis ha continuato ad operare sul territorio, anche dopo la scomparsa di Francesco, dimostrando quanto radicate siano queste organizzazioni criminali nel tessuto sociale ed economico della zona.
Dal 2011 il clan è guidato da Enzo Miucci ma le dinamiche di violenza e controllo del territorio sono rimaste sostanzialmente immutate. Le indagini più recenti, come l’operazione “Mari e Monti”, hanno portato a 39 arresti per associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, estorsioni, dimostrando che la lotta contro la criminalità organizzata in queste terre è tutt’altro che finita.
Oggi, a più di dieci anni dalla scomparsa, Francesco Libergolis è diventato un simbolo. Il simbolo di tutte quelle persone oneste che in terre difficili pagano il prezzo delle scelte sbagliate di altri. Il simbolo di una giustizia che non arriva mai, di famiglie spezzate dall’attesa.
Come nel caso di Angelo Iaconeta, anche per Francesco Libergolis i familiari continuano a chiedere verità, non vendetta. Vogliono sapere cosa è successo, vogliono un corpo da piangere e la possibilità di elaborare il lutto e di andare avanti con le loro vite.

Ma il Gargano continua a tenere stretti i suoi segreti e Francesco Libergolis rimane uno dei tanti fantasmi che abitano quelle terre meravigliose e maledette, dove la bellezza della natura convive con l’orrore della violenza umana.
Forse un giorno la terra restituirà anche Francesco, come ha fatto con altre vittime di lupara bianca. Forse un pentito deciderà di parlare, di liberarsi del peso di un segreto troppo grande da portare. Forse una nuova indagine riuscirà là dove le precedenti hanno fallito.
O forse Francesco Libergolis rimarrà per sempre uno dei tanti misteri irrisolti del Gargano, una delle tante ombre che aleggiano su quelle campagne, uno dei tanti nomi scritti solo nella memoria di chi lo ha amato e non ha mai smesso di sperare.
Francesco Libergolis, l’allevatore onesto scomparso nel nulla, continua a essere presente nell’assenza, a gridare giustizia nel silenzio, a chiedere verità in una terra che troppo spesso preferisce tacere.
E finché ci sarà qualcuno a ricordarlo, Francesco Libergolis non sarà mai veramente scomparso. Sarà lì, nell’ombra, ad aspettare che finalmente si faccia luce sulla sua storia.