Potrebbe diventare la prima regione italiana ad approvare una legge sul suicidio assistito elaborata dall’associazione “Luca Coscioni”.
Roma – La Sardegna potrebbe diventare a breve la prima regione italiana ad approvare una legge sul suicidio assistito elaborata dall’associazione “Luca Coscioni”. Infatti, mentre in altre regioni gli attivisti dell’associazione stanno raccogliendo le firme per poter presentare una norma di iniziativa popolare sul fine vita, nell’isola la proposta è stata accolta e trasformata in legge regionale dal gruppo consiliare del Partito democratico, ricevendo il sostegno di altri gruppi politici di maggioranza, tra cui Progressisti, M5s e Sinistra futura. La proposta di legge, intitolata “Liberi subito” e a prima firma del capogruppo dem Roberto Deriu, è stata assegnata oggi alla commissione competente che dovrà lavorarci prima dell’approdo in aula.
L’auspicio per i proponenti è che il provvedimento possa vedere la luce entro i primi mesi del 2025. La norma, è specificato, “è volta ad introdurre normativamente tempi certi e regole precise sulle modalità con cui le autorità sanitarie regionali devono garantire la necessaria assistenza sanitaria a chi è titolare del diritto a richiedere il suicidio medicalmente assistito, in conformità ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242 del 22 novembre 2019″. Una pronuncia che “ha avuto il pregio di individuare un’area in
cui l’incriminazione per aiuto al suicidio disciplinata dall’articolo 580 del Codice penale non è conforme al dettato costituzionale, evidenziando la necessità di introdurre una disciplina legislativa che regolamenti un percorso di accesso al suicidio assistito che sia conforme ai valori sanciti dagli articoli 2, 13 e 32 della nostra Carta”.
“Da tempo in Italia le persone chiedono la libertà di essere loro a decidere fino alla fine della vita – spiega alla ‘Dire’ Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, intercettato durante la manifestazione a Cagliari di Cgil e Uil-. Chiedono di poter interrompere condizioni di sofferenza insopportabili, senza che nessuno gliele possa imporre come una tortura e una violenza”. C’è già una legge voluta dalla Corte costituzionale, ricorda Cappato, “in cui si dice che una persona può scegliere di essere aiutata a morire senza soffrire se è affetta da patologie irreversibili, che producono sofferenze insopportabili, ed è dipendente da trattamenti sanitari. Quello che manca sono procedure e tempi certi per il sistema sanitario regionale, e
appunto per rispettare queste regole”.
Due settimane fa in Lombardia era stato dato il via libera a un nuovo caso di suicidio assistito per un malato irreversibile, il decimo in Italia. Dopo sei mesi di verifiche, il paziente aveva ottenuto la conferma di possedere i requisiti stabiliti dalla sentenza Cappato. La commissione medica aveva riconosciuto che il malato è in possesso dei quattro requisiti fissati dalla Consulta per accedere al percorso. La sentenza della Corte Costituzionale 242 del 2019 sul caso di Dj Fabo, ha legalizzato l’accesso alla pratica del suicidio assistito qualora sussistano determinate condizioni di salute del paziente che ne fa richiesta. Ovvero, la presenza di una patologia irreversibile, l’utilizzo di trattamenti di sostegno vitale, la dichiarazione da parte del malato di patire sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili e la possibilità, per il soggetto, di esprimere il libero consenso e la volontà di accedere alla procedura.
In base alla sentenza della Corte costituzionale, in Italia è già possibile accedere alle procedure sanitarie per il fine vita. Questa sentenza “si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. La nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o ‘caregivers’ che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.