Figlio del boss scomparso nella Locride, i resti nella sua auto sono umani

Il test del Dna dirà se appartengono ad Antonio Strangio, 42 anni. Il padre Giuseppe è una figura chiave della ‘ndrangheta locale. Lo spettro di una nuova faida.

Reggio Calabria – Per quanto atteso, lo scenario che si profila è il peggiore. Si fa sempre più concreta la possibilità che i frammenti ossei rinvenuti nel fuoristrada distrutto da un incendio, scoperto dai carabinieri il 18 novembre scorso in una zona rurale tra San Luca e Bovalino, nella Locride, appartengano ad Antonio Strangio, un allevatore di 42 anni scomparso da diverse settimane. L’ipotesi è stata ulteriormente rafforzata dalla conferma che i resti rinvenuti sul veicolo, di proprietà di Strangio, sono di origine umana e non animale, come inizialmente ipotizzato.

Strangio non ha precedenti per ‘ndrangheta, ma una parentela di rango che non potrebbe far derubricare il suo eventuale omicidio ad un delitto qualsiasi. Non a San Luca, non nella Locride. Il padre di Antonio, Giuseppe Strangio, è stato tra i protagonisti dei rapimenti “eccellenti” sull’Aspromonte a cavallo degli anni Settante e Ottanta, da Giovanni Piazzalunga a Carlo De Feo fino al più noto Cesare Casella. Già condannato a 14 anni di carcere per omicidio nel 1974, Giuseppe è una figura chiave della ‘ndrangheta locale e non solo.

Nel bagagliaio del Suv di Strangio hanno trovato i residui plastici di quello che era un giubbotto, gioielli fusi dalle fiamme, la sagoma di quel che resta di un corpo disteso su un fianco. Le fiamme hanno risparmiato poco o nulla. Che si sappia, c’era solo qualche dente e dei frammenti ossei, forse di mandibola. Per accertare con certezza se i resti appartengano all’uomo, la Procura della Repubblica di Locri ha disposto il trasferimento dei frammenti ossei in un centro sanitario specializzato a Messina. Qui verranno sottoposti a esami tecnici, inclusa una tomografia computerizzata (Tac). In seguito, una volta ottenuto il via libera dalla Procura, sarà eseguita anche l’analisi del Dna.

Troppo presto, quindi, per dare un nome a quei frammenti combusti, ma comunque in Procura, a Locri come all’Antimafia di Reggio Calabria, è allarme rosso. Da anni nella Locride non scorreva il sangue, l’equilibrio tra le famiglie garantito da una nuova spartizione delle quote e delle rotte del narcotraffico sembrava reggere. Se i resti fossero dell’allevatore scomparso, si aprirebbe invece uno scenario diverso e potenzialmente devastante. Nella Locride il sangue chiama sangue.

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