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F… DI FORZA

arrestarsi di fronte al limite, cedere, anche proprio malgrado, è sinonimo di forza. Per i Greci chi oltrepassa il limite converte l’esercizio della propria forza in hybris, tracotanza, che offende uomini e dèi e si attira l’inevitabile nemesis, la punizione divina

La lettera F possiede una pronuncia dal suono dolce che ci consente di evocare farfalle, fiori, felicità, ma io preferisco la parola “forza” perché, quest’oggi, anziché insinuare dubbi, intendo negare quell’equivalenza così abituale che vede la forza essere identificata con la prepotenza.

Pensiamoci. Che cosa evoca di primo acchito questa parola? Di solito tende verso l’accezione virtuosa e rasserenante del valore e del coraggio, in realtà siamo in presenza di un termine che, come pochi altri, si mette a disposizione per designare una gamma pressoché inesauribile di valori (o di disvalori) tra i quali districarsi. Nel significato meramente fisico, la “forza” si veste di un carattere positivo opposto a quello di debolezza: forza in quanto vigore, salute, energia vitale contrapposta alla debolezza dell’infermità, dell’astenia, dell’inerzia patologica. Questo è un concetto solitamente condiviso. Meno chiaro, invece, è quello della “forza” morale ed è per questo che si presta a qualche considerazione.

La forza di carattere che noi elogiamo, quando la riconosciamo in un individuo, sovente si presenta sotto la specie della capacità di perseguire i propri obiettivi, senza arrendersi di fronte a qualsivoglia ostacolo grazie a quella qualità che va sotto il nome di tenacia. A volte questa forza assume i connotati dell’attitudine, dell’abilità ad opporre resistenza a quanto minaccia di menomarci o di schiacciarci (non solo fisicamente beninteso) e che si potrebbe tentare di elencare in tutte le varianti del dolore, del sopruso, della paura e in tutti i colpi inferti dalla fortuna e dagli altri esseri umani. Più che di resistenza si deve parlare di resilienza, ovvero quella forza priva di ogni ricorso alla violenza, colma di ritegno, di pudore e di scrupolo da cui si attingerà, in un secondo tempo, anche un altro tipo di forza: quella del rinascere.

Si sa: nel procedere senza deviazioni verso la propria meta ci sono i diritti, i desideri ed i sogni di altre persone, che dai più vengono travolti ma – peggio ancora – passano quasi sempre inavvertiti. Ecco, questo è il punto: qui comincia la confusione tra “forza” e “prepotenza”. Non mi basta che questo venga fatto “per innocenza”, che è modo edulcorato di dire “per superficialità” senza voler giungere al “per insensibilità”. Vogliamo, per cortesia, cominciare a pensare che esiste l’autodominio (forse fratello minore del dantesco “libero arbitrio”) inteso come riconoscimento e rispetto dei limiti oltre i quali la realizzazione del proprio volere diventa danno? E riconoscere che questo fatto non è, come sovente viene accreditato, debolezza: arrestarsi di fronte al limite, cedere, anche proprio malgrado, diventa sinonimo di forza. Per i Greci chi oltrepassa il limite converte l’esercizio della propria forza in hybris, tracotanza, che offende uomini e dèi e si attira l’inevitabile nemesis, la punizione divina riservata a chi non sa riconoscere il punto è qui doveroso arrestarsi. Lo stadio terminale di questa oltranza è quello in cui la forza incontrollata infligge alle sue vittime l’umiliazione. Come dice Alain “il più grande abuso della forza è senza dubbio quello di esigere il consenso” ossia di non accontentarsi del cedimento fisico e morale della propria vittima, ma di pretendere che quest’ultima non subisca questo cedimento come un’imposizione, bensì sia persuaso della sua esattezza. Ma questa terribile pretesa sottrae l’ultimo rifugio della dignità umana e presta il fianco alla ribellione che, a sua volta, genera la resilienza.

L’altro versante della forza come autodominio ci conduce magari non proprio alla felicità (che pare condizione umana raramente accessibile) ma sicuramente sulla strada della padronanza di noi stessi. Mi spiego: sto parlando di quella forza che ci consente di vivere senza maschera e non desidero proporre alcun riferimento pirandelliano, ma è discorso trito che ciascuno di noi sia portato, per ragioni educative e di opportunità sociali, non solo a rivestire un ruolo, ma anche a presentarsi come gli altri desiderano che sia. Mi preme, quindi, sollecitare il vostro pensiero verso la considerazione di quanta forza occorra per andare nel mondo con l’abito che si adatta perfettamente al nostro “essere” e/o che abbiamo deciso sia il nostro.

Essere noi stessi nel rispetto degli altri è la forza più gravosa che quotidianamente dobbiamo mettere in atto nel difficile equilibrio fra la padronanza di noi stessi, la conoscenza di quanto l’esistenza dell’altro da noi ci richiede e la strenua accettazione dell’inevitabile. Forse non sarà la regola della felicità, ma, altrettanto forse, è molto possibile che sia quella che ci consente la comprensione di noi stessi, della nostra identità e l’orgoglio di essere quello che siamo.

m.r.

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