Una storia locale ma paradigmatica di un Paese che annega tra mancata programmazione, ritardi, miopie e ripicche politiche.
Alle quattro del mattino su Milano comincia a piovere forte, alle sei il Seveso esonda. E’ successo ieri notte e altre 118 volte dal 1975, oltre 20 dal 2010, mentre nel 2014 si susseguirono nel giro di tre mesi ben 6 esondazioni consecutive. Puntuale come un orologio svizzero il fiume un paio di volte all’anno si riprende gli spazi conculcati dalla città e fa danni.
Che poi nemmeno esonda perché tecnicamente, spiegano gli esperti, più che altro rigurgita, cioè viene su dai tombini. Distinguo che poco appassiona i residenti dei quartieri a nord del capoluogo, dal secondo dopoguerra obbligati a pagare questa tassa periodica in cambio delle solite promesse. La questione non richiede nemmeno una laurea in ingegneria idraulica. E per una volta la magagna si trova a valle. Nel Novecento la città si espande a macchia d’olio seppellendo di cemento e asfalto tutto ciò che trova sul suo trionfante incedere. Là dove c’è un fiume, viene interrato e sopra vai di strade e palazzoni. Se c’era un piano del territorio era mal formulato.
Il Seveso è fiume a vocazione torrentizia, insomma poca roba, cinquanta chilometri o poco più da Como a Milano, solcando l’operosa Brianza. A nord del capoluogo viene “tombinato”, scompare, si inabissa, la sua acqua ingabbiata in uno spazio evidentemente troppo angusto per reggerne le piene, rare ma devastanti. Insomma, anche il Seveso nel suo piccolo si incazza. Se l’acqua non trova sbocchi sottoterra li cerca in superficie attraverso i tombini e quando emerge, se non c’è terra ad assorbirla, si dirige verso cantine, strade e metropolitane.
Milioni di danni, pubblici e soprattutto privati. La soluzione? Non potendo Milano restituire al fiume il suo alveo naturale, va ricercata a monte, costruendo lungo il suo corso delle vasche nelle quali far defluire il sovrappiù d’acqua. Per anni la politica tace e i milanesi asciugano. Poi nel 2014 il governo Renzi sblocca i fondi per intervenire in alcune situazioni di dissesto idrogeologico: il piano anti-esondazioni da 170 milioni di euro prevede anche la realizzazione delle quattro vasche, di cui tre in altrettanti comuni a nord di Milano – Lentate, Varedo, Senago – e una al Parco Nord – proprio nell’area dove il fiume è stato interrato.
E qui si passa dall’acqua al pantano. A nord i paesi del contado dove dovrebbero essere scavate queste mega vasche non sono per nulla disposti a vedersi deturpare il paesaggio per fare stare all’asciutto gli spocchiosi milanesi. Così i progetti si incagliano e per sbloccarli serve assicurare costosi lavori compensativi (giardini, parchi e altre infrastrutture). Poi ci mettono il becco anche gli ambientalisti. Il timore è quello che le vasche, ben lungi dal diventare ameni laghetti urbani, si trasformino in cloache a cielo aperto, visto che le acque del Seveso sono piuttosto inquinate.
La depurazione la paga Como o Milano, monte o valle? Le intermittemze politiche nelle amministrazioni lungo il corso del fiume certo non aiutano, disseminando l’iter delle vasche di ripicche e capricci che fanno perdere altro tempo e denaro. Basta vedere ieri mattina, quando ancora Milano aveva l’acqua alle caviglie, come se le sono date di santa ragione Comune e Regione. Ad oggi nemmeno una vasca è pronta a smorzare la prossima furia del Seveso, che arriverà presto, forse prima del panettone.