La giornalista aveva iniziato la sua carriera con Giovanni Minoli realizzando diverse grandi inchieste su cui primeggiava quella sul gravissimo caso di malagiustizia che aveva ucciso il padre Enzo Tortora. Lascia la sorella Gaia, il marito Philippe Leroy ed i suoi due figli.
Roma – Il mondo del giornalismo e della tv piange la morte di Silvia Tortora, 59 anni, primogenita del grande Enzo Tortora ed della seconda moglie Miranda Fantacci. La giornalista era ricoverata in una clinica romana in precarie condizioni di salute che poi sarebbero peggiorate sino al decesso. Silvia Tortora lascia la sorella Gaia, giornalista e vicedirettore del Tg su La7, ed il marito Philippe Leroy, noto attore francese sposato nel 1990 e da cui ha avuto due figli Michelle e Philippe.
Dopo la terribile vicenda giudiziaria che aveva colpito il padre Silvia aveva intrapreso la carriera di giornalista lavorando con Giovanni Minoli per “Mixer” e poi per “La storia siamo noi”, realizzando diverse inchieste su Mia Martini, Renato Vallanzasca, Francesco Totti e, ovviamente, sulla tragica vicenda di malagiustizia che aveva colpito Enzo.
La terribile esperienza che si era abbattuta sul noto conduttore di Portobello, segnandone per sempre l’esistenza, aveva lasciato una profonda ferita rimasta aperta su tutta la famiglia Tortora, in particolare su Silvia che aveva dedicato ogni giorno della sua vita alla ricerca della verità. Una verità che solo in parte è stata svelata:
”…Dal mio punto di vista non è cambiato nulla: sono 30 anni di amarezza e di disgusto – dichiarava Silvia all’Ansa in occasione del 30° anniversario della morte del padre – si aspettava una riforma piena della giustizia affinché non potesse più accadere quanto avvenuto col padre: invece non è accaduto. I processi continuano all’infinito. Anzi in 30 anni c’è stata una esplosione numerica…Enzo è stato prelevato dalla sua vita senza che venisse aperta una Commissione d’inchiesta, senza che nessuno pagasse per quell’errore. Anche se penso che Enzo se ne sia andato troppo presto, è meglio che non veda questo schifo. A cosa è servito il suo sacrificio? La potenza del dolore e dell’ingiustizia ha provocato un solo effetto: la sua morte…”.
Enzo Tortora era stato accusato di associazione camorristica e traffico di droga. A seguito delle gravi accuse ne seguì tutta una serie di attività investigative, senza capo né coda e ricche di depistaggi, di camorristi pentiti, di testimoni venduti e magistrati quanto meno distratti. Si fa per dire.
Tortora era stato poi arrestato nel 1984 e dopo 7 mesi di reclusione preventiva veniva condannato a dieci anni di carcere. Due anni dopo la giustizia gli riconosceva la totale estraneità ai fatti contestati e arrivò l’assoluzione con formula piena. Nonostante l’assoluzione la vita privata e quella professionale del giornalista venivano devastate e Tortora si portò dentro quel peso immane sino alla morte avvenuta il 18 maggio 1988:
“…Mi hanno impedito di vivere un qualsiasi rapporto tra padre e figlia – aveva detto Gaia Tortora durante un’intervista – mi hanno privata della sua presenza, di crescere con lui e di scoprirlo. Avevo solo 13 anni quando lo hanno arrestato e 18 quando è morto. Mi hanno tolto tanto. Il dolore non passa, ma la voglia di credere nella giustizia è ancora forte. Come mio padre ho sempre creduto nelle istituzioni. E sarebbe sbagliato non avere più fiducia nella giustizia. Bisogna lottare per cercare di modificare quelle storture che possono esserci nel sistema e anche nel nostro mestiere perché facciamo da cassa di risonanza…”.