Dalla sua approvazione nel 2015, la Legge 68 ha introdotto nuovi reati ambientali nel Codice Penale. Ma i dati parlano chiaro: in dieci anni oltre 12mila persone denunciate e un ecoreato ogni tre controlli.
Dieci anni fa fu approvata la Legge 68 del 22.05.2015, conosciuta come Legge sugli ecoreati per contrastare le attività illecite commesse contro l’ambiente. Fu una vera riforma dei reati ambientali, tanto da introdurre nel Codice Penale un nuovo titolo, dedicato appunto ai delitti contro l’ambiente e includendo al suo interno nuove fattispecie di reato considerate particolarmente severe, tra cui: l’inquinamento ambientale, il disastro ambientale, il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo, l’impedimento del controllo e l’omessa bonifica.
La legge introdusse una specifica aggravante per le cosiddette “ecomafie”, ossia i reati contro l’ambiente compiuti dalla criminalità organizzata. Inoltre prevedeva anche la responsabilità amministrativa dell’ente che omette i controlli o, peggio, colluso con chi commette attività illecite. Ebbene, la legge pare non aver influito più di tanto sulla criminalità organizzata. Dal 16 al 17 maggio è stato presentato a Roma, in occasione della conferenza ControEcomafie, lo studio di Legambiente e Libera, col supporto dell’Università Roma Tre e l’associazione Casa Comune. I dati parlano chiaro.

Nel corso del decennio sono stati verificati quasi 7 mila ecoreati, realizzati oltre 21 mila controlli, denunciate 12510 persone, di cui 556 fermate. Sono stati requisiti beni immobili per più di 1,1 miliardi di euro, frutto di attività illecite, inquinamento e danni irreparabili ai territori e all’ambiente circostante, oltre che alle comunità ivi residenti. Anche se i numeri sono drammatici, è da sottolineare che, quantomeno non sono più ignoti come un tempo, ma sono il prodotto di strutture organizzate che operano a loro agio in un humus ad alta densità mafiosa. Oltre il 40% dei reati ambientali è stato commesso in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, una macabra riedizione del “4 Cavalieri dell’Apocalisse”, i cui nomi secondo la leggenda erano: Morte, Carestia, Pestilenza e Guerra. Non si è lontani, purtroppo, dall’attualità di quelle 4 regioni martoriate! La Campania primeggia in questa drammatica classifica, seguita da Sardegna e Puglia.

Quarta la Lombardia, a conferma che il crimine ambientale non conosce confini. Desta un certo stupore il 6° posto del Trentino-Alto Adige, a dimostrazione che tutti i territori, ormai, oppongono scarsa resistenza alle attività illecite. E’ stata stilata, inoltre, una classifica dei beni requisiti. Si oscilla dagli oltre 400 milioni di euro della Sicilia fino ai zero euro della Valle d’Aosta. In cima alla lista dei reati c’è quello ambientale che prima della Legge 68 del 2015 era inesistente, in quanto non previsto dal codice penale italiano. Poi seguono gli altri compresi nell’elenco summenzionato previsto dalla legge.
L’aspetto più deleterio è costituito dal fatto che per ogni 3 controlli effettuati, uno configurava tutte le condizioni del reato penale. Una percentuale spaventosa a dimostrazione che nonostante la legge, il reato resta sommerso e i meccanismi di repressione messi in campo non sono risultati efficaci, o almeno non quanto si sperava e che il traguardo della sua scomparsa e sconfitta sia ancora in là da raggiungere. Senz’altro la Legge 68/2015 andava approvata ed è stata un traguardo di civiltà.
Tuttavia i meccanismi dell’agire politico sono molto lenti, farraginosi, distorsivi con una burocrazia che ritarda le decisioni e rende la lotta ai reati ambientali incerta e improduttiva. Anche perché dall’altro lato, la criminalità organizzata non ha remore di alcun tipo, morto un papa ne fa subito un altro, mostrando di avere un alto livello di adattamento e di rigenerazione!